1. In un volume[1] collettaneo di Ernesto de Martino, intitolato Furore, simbolo, valore, si trova un breve
articolo intitolato Furore in Svezia,
che contribuisce al titolo stesso della raccolta. Il furore cui si fa
riferimento è un episodio accaduto nel 1956, durante il capodanno, nel centro
di Stoccolma: cinquemila adolescenti abbigliati con giubbe di cuoio si erano scatenati
e avevano tenuto la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili,
frantumando le vetrine ed erigendo barricate. Si ebbero scontri violenti con la
polizia, si contarono numerosi feriti e molti arresti. Fenomeni analoghi,
seppure di minore intensità, si erano ripetuti in quel periodo, nel fine
settimana, nel centro di Stoccolma e in altre città svedesi. Il lettore odierno
non fa alcuna fatica ad andare con la memoria a episodi analoghi, anche ben più
gravi, accaduti nei tempi successivi, fino ad oggi, sia nel nostro paese sia
altrove. Si tratta di episodi violenti che si caratterizzano per la loro apparente
assoluta mancanza di senso.
2. Già de Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di
aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza
scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro
qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di
adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro
e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in
furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o
vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di
annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo,
far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce
da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee
si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti
oltre la scarica distruttiva».[2]
3. Naturalmente già all’epoca in cui scriveva De Martino erano stati
avanzati vari tentativi di spiegazione di questi fenomeni. Egli sottolineava
tuttavia la non esaustività delle spiegazioni economiche (i giovani in
questione non condividevano la stessa condizione sociale, non si trovavano cioè
in situazioni sociali ed economiche particolarmente critiche), come pure delle
spiegazioni incentrate sull’eccesso di benessere svedese, oppure sulla
solitudine delle alte latitudini dovuta ai ritmi naturali della giornata
(freddo, mancanza di luce) e invocava l’esigenza di ricorrere al contributo
dell’etnologia e della storia delle religioni per comprendere meglio il
fenomeno: «Dal punto di vista dell’etnologia e della storia delle religioni il
capodanno di Stoccolma e altri episodi affini perdono il loro carattere più
preoccupante di assoluta eccezionalità e si manifestano come un pericolo che
tutte le epoche e tutte le civiltà hanno dovuto fronteggiare, con maggiore o
minore successo. Questo pericolo è l’angoscioso essere afferrati dalla
nostalgia del non-umano, è l’impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza
vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a
favore dell’umanità e della storia. […] L’etnologia e la storia delle religioni
confermano largamente la tesi secondo cui una delle funzioni fondamentali della
civiltà consiste nel controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamò “istinto
di morte”, cioè l’abdicazione della persona come centro di decisione e di
scelta secondo valori, la tendenza a cancellare dall’esistenza quanto esiste,
la cieca tentazione della eversione e del caos, la nostalgia del nulla».[3]
4. Insomma, de Martino ipotizzava una specie di patologia, propria dell’animale culturale, che consiste giusto
nel disancoramento dalla propria cultura
(che de Martino considerava un artefatto storico) o, se si preferisce, nel disancoramento dal proprio Mondo, e
nella conseguente messa in opera di comportamenti distruttivi nei suoi stessi
confronti. In seguito al venir meno del legame con la cultura, che dà forma
alla storicità delle varie comunità e che dunque così contribuisce a definire i
comportamenti e le identità dei singoli, si spalancherebbe l’abisso primordiale
dell’assoluto negativo. 
Questa condizione, si badi bene, non ha nulla a che fare con l’istinto
meccanico dell’animale, regolato e selezionato per secoli dall’evoluzione, che
non ha nulla di distruttivo, ma è una situazione potenziale specifica degli umani, nel cui orizzonte
culturale può prendere forma qualunque aberrazione distruttiva, contro
qualsiasi cosa abbia un significato culturale compiuto, in termini di
limitazione, di coerenza, di convenzione, di durata. Ciò può implicare la
distruzione di qualsiasi cosa sia comunemente considerata come dotata di
valore. Invece di realizzare se stessi in termini costruttivi, attraverso le diverse
forme valoriali che la cultura mette a disposizione, si cerca di costruire e
mantenere una propria momentanea identità attraverso la distruzione, più o meno
sistematica, del prodotto culturale storico che una società è riuscita a
mettere insieme.
Non si tratta dunque di una manifestazione culturale nuova, una qualche
forma di cultura critica radicale o alternativa, il tentativo di criticare un
qualche valore che istituisce un particolare mondo dell’esserci, ma di un gesto distruttivo nei confronti di quello
che c’è, di ciò che è condiviso dalla gran parte dei membri di una società.
Si tratta di un gesto semplicemente regressivo che evoca modalità infantili e/o
primitive di rapporto con l’oggetto e con gli altri.
5. Questa possibilità, insita nell’animale culturale, si scontrava con l’ottimismo
storicistico, professato dallo stesso De Martino, secondo il quale, la storia
sarebbe il campo della realizzazione costruttiva, o dell’ethos del trascendimento – come egli si esprimeva attraverso il suo
linguaggio fenomenologico esistenzialistico. Il furore è dunque un
comportamento del tutto possibile per l’animale uomo, un comportamento attraverso
il quale l’uomo non riconosce più il proprio stesso patrimonio culturale e lo vandalizza
e devasta. Un comportamento determinato da una sorta di affermazione di sé attraverso la produzione del caos, attraverso lo
scoperchiamento del nulla, il bisogno di mostrare il nulla che abita sotto la
sovrastruttura culturale, di vanificare come illegittimo qualsiasi ordine di
valore instaurato. Insomma, la disgregazione al posto della realizzazione
costruttiva.
6. De Martino osservava, nel suo articolo, che nelle società arcaiche e
nelle civiltà del mondo antico l’abisso primordiale che inevitabilmente si rivela quando viene meno l’identificazione basilare
con la propria cultura era ben noto. Esso era considerato come qualcosa di
molto pericoloso, tanto che veniva circoscritto e ritualizzato. Egli fa l’esempio
del capodanno babilonese, oppure dei Saturnali romani, oppure ancora delle
tradizioni carnevalesche. 
Così racconta de Martino: «Nel capodanno babilonese il rito disfaceva il
tempo trascorso nell’anno spirante, cancellava per così dire la storia che si
era accumulata, ed esprimeva un regresso all’epoca mitica delle origini, quando
il caos dominava e il cosmo non era ancora stato fondato. In rapporto a questo
schema tecnico il rito comportava aspetti di distruzione e di annientamento
dell’ordine sociale vigente, come l’umiliazione e l’abbassamento della stessa
potenza regale, la simbolica trasformazione degli schiavi in padroni, la
violenta eliminazione dei mali fisici e morali contratti nel corso dell’anno
spirante, e infine la instaurazione dell’indistinzione originaria del caos. Ma
il rito includeva anche l’opposto momento della reintegrazione dell’ordine, e
del ripristino dei valori sociali e morali: veniva infatti rappresentata la
lotta dell’eroe Marduk contro il mostro marino Tiamat, con la vittoria finale
dell’eroe e la fondazione primordiale del cosmo. In tal modo lo schema mitico -
rituale del capodanno babilonese consentiva all’impulso di morte di
manifestarsi attraverso eversioni e inversioni annientatrici dell’ordine
vigente: ma gli impulsi distruttivi non erano fatti valere sul piano
realistico, ma su quello simbolico del rito, e soprattutto la vicenda riceveva
il suo senso dalla ripetizione del dramma della creazione e della
reintegrazione di un ordine nuovo senza macchia, uscito per la prima volta dal
caos».[4]
Carattere comune di questi espedienti di manipolazione del nulla e di reintegrazione
del significato, di questi artefatti culturali di morte e rinascita, sono
la durata circoscritta nel tempo, la cancellazione temporanea dei ruoli e delle
barriere sociali, lo scatenamento emozionale, il sacrificio o la distruzione di
qualche entità simbolica, la narrazione di miti legati alla questione dell’ordine
e del disordine, la reintegrazione dell’ordine. Insomma, si tratta di un modo
per evocare l’abisso senza farsene
travolgere, un modo per circoscriverlo e per produrre una reintegrazione culturale.
7. In mancanza di una capacità diffusa di reintegrazione, può sopravvenire
il fascino del nulla, il nichilismo.
Così De Martino aveva interpretato la crisi culturale del periodo del secondo
dopoguerra. «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione
da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova
adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo
di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile
con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della
millenaria storia di Occidente».[5]
8. De Martino dunque ci avverte che le culture, tutte le culture, anche le
più complesse, sono estremamente fragili, che la connessione che si stabilisce
tra i corpi biologici e il patrimonio culturale che vien
costantemente elaborato e accumulato è estremamente labile, che la cultura, la
quale ha il compito di dirigere attraverso i propri valori il comportamento
umano, è in fondo un costrutto
artificiale, un prodotto non necessario della storia, che avrebbe potuto
essere completamente diverso da quello che ci ritroviamo. Si tratta di una
forma di rappresentazione o, se si
preferisce, addirittura di una illusione,
come direbbero volentieri diversi filosofi continentali. Ammesso che così sia,
si tratta tuttavia di un’illusione
necessaria, poiché quello che siamo
in quanto umani è esattamente il
costrutto culturale che siamo in grado di produrre e di mantenere, senza
farci troppo ammaliare dal fascino dell’abisso.
postfazione 2025
1. Lo scritto antropologico di Ernesto De Martino, che ho
testé presentato e analizzato, ha ben poco a che fare con la tradizione
continentale che si è occupata del nichilismo
in quanto categoria filosofica. Mi riferisco alla tradizione che ha tra i suoi
esponenti principali Nietzsche ed Heidegger, seguiti da una schiera di epigoni.
Dato che De Martino, nel suo saggio sul nichilismo, ha preso le mosse dalle
manifestazioni del disagio giovanile degli anni Cinquanta, ho pensato di
metterlo a confronto con Umberto Galimberti, un rispettabile seguace di
Nietzsche e Heidegger, che ha trattato anch’egli della tematica del rapporto
tra il nichilismo e i giovani. Credo che il raffronto possa risultare piuttosto
utile, anche al fine di chiarire alcuni concetti fondamentali riguardanti il
ruolo delle marche emotive e del simbolismo nella costruzione della coscienza
collettiva e dell’ordine morale della società. Ciò mi permetterà,
indirettamente, di distinguere tra quel che è la teoria sociale, invero oggi piuttosto misconosciuta, e quel che
sono certe favole filosofiche che
sono invece piuttosto di moda.
2. De L’ospite
inquietante[6] – che porta come sottotitolo Il nichilismo e i giovani – di Galimberti mi sono occupato fin dal
2007, quando il volume è uscito. Questo perché lo scritto possiede almeno due
livelli di lettura. Il primo è quello dell’instant
book sui problemi della condizione giovanile, dove si compiono diverse
analisi e considerazioni a partire dai fatti di cronaca e dalla ricognizione di
vari elementi empirici relativi al disagio e alla violenza giovanile.[7] A
quell’epoca era questo il livello che mi aveva soprattutto interessato, poiché
ero allora impegnato in una ricerca sociologica sui giovani. Il secondo livello
di lettura, quello più sottile e forse più sfuggente, riguarda invece proprio
la questione filosofica del nichilismo.
Nell’impianto del saggio di Galimberti, il concetto teorico filosofico del
nichilismo – com’è stato elaborato da Nietzsche e Heidegger – viene ampiamente utilizzato
in termini esplicativi per dar ragione del disagio giovanile e per proporre addirittura
una soluzione che dovrebbe condurre oltre il nichilismo. Qui, indubbiamente, la
filosofia si fa antropologia, sociologia, psicologia e soprattutto tecnica
terapeutica per curare i mali del mondo. Più volte, nel suo scritto, Galimberti
manifesta una certa sufficienza nei confronti delle scienze umane che – in
quanto scienze – sarebbero incapaci di fare effettivamente fronte ai problemi
dei quali si occupano. Più efficace sarebbe, appunto, la filosofia, almeno
quella che intende Galimberti. Questo secondo piano di lettura è quello di cui
mi occuperò in questa sede.
3. Non mi occuperò quindi della questione effettiva del
disagio giovanile e/o della violenza insita in taluni comportamenti giovanili,
argomenti di cui comunque è pervaso il libro di Galimberti, a proposito dei
quali va comunque riconosciuto che egli è in grado di fare una miriade di
osservazioni senz’altro intelligenti e interessanti. Mi occuperò piuttosto
della teoria filosofica sottostante e quindi, indirettamente, dell’annosa
questione dell’uso possibile delle teorie filosofiche a fini terapeutici.
Vedremo purtroppo come la terapia proposta da Galimberti finisca per costituire
essa stessa una delle cause, forse la più importante, della malattia che egli
intende curare.
4. Dati i miei scopi, del saggio di Galimberti esaminerò qui
soprattutto l’introduzione e le conclusioni. Fin dalle prime battute,
Galimberti propone la sua versione del nichilismo: «[…] i giovani, anche se non
sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che
costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si
aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri,
cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le
passioni rendendole esangui».[8]
Galimberti
dice con chiarezza che il disagio di cui parla è di natura culturale: «E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, è
un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza
che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più
psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla
sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la
causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani,
parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono
le prime vittime».[9] 
5. Insomma, abbiamo ormai una catastrofe culturale alle spalle
e la condizione odierna dei giovani sarebbe soltanto una conseguente manifestazione
di quanto è già accaduto. Se questo fosse vero, ogni questione di rimedi
sarebbe fuor discussione: «Se il disagio giovanile non ha origine psicologica
ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia
nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione
illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei
rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della “ragione
strumentale” che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte
di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento. Le pagine di
questo libro non indicano un rimedio di facile ed immediata attuazione. E già
questa ammissione di impotenza la dice lunga sulla natura del disagio che, lo
ripeto, non è esistenziale ma culturale».[10] 
Mi permetto
di osservare en passant che le teorie
che individuano nella storia un qualche peccato
originale funzionano tutte più o meno così. Si tratta anzitutto di
individuare dove e quando è avvenuto il fattaccio che a tutt’oggi ci condiziona
da vicino e ci impedisce di essere quel che vorremmo o dovremmo essere. Dopo
avere fatto con sicurezza la diagnosi, si tratterebbe allora di cercare un
rimedio, a proposito del quale, tuttavia, si può essere anche piuttosto vaghi e
possibilisti. Ci si può anche limitare a evocare vaghe speranze. Ad aspettare
qualche forma di salvazione. O a concludere che non c’è più niente da fare.
6. Nel caso di Galimberti e del nichilismo, la diagnosi è
piuttosto precisa: in estrema sintesi è tutta colpa della ricerca esasperata di un senso, la quale ricerca è in corso non da
ieri, ma fin dagli inizi della tradizione giudaico cristiana. Più o meno, si
tratterebbe di un problema che sussiste fin dagli albori della civiltà, o fin
dalla creazione biblica, per quelli che la considerano seriamente.
Nonostante
il fatto che la questione, messa così, assuma decisamente una prospettiva epocale
cosmico storica, Galimberti, con un guizzo creativo, prospetta comunque il suo
rimedio: «E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso
come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello
che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria
capacità, o, per dirla in greco, del proprio daimon che, quando trova la sua
realizzazione, approda alla felicità, in greco eudaimonia? In questo caso il
nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare
che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso
vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive
capacità, quanto l’arte del vivere (téchne tou biou) come dicevano i Greci, che
consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seauton, conosci te
stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron).
Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei
giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa
scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione
della vita a cui per natura tende la giovinezza e la sua potenza creativa».[11]
7. Galimberti avanza dunque l’ipotesi (invero piuttosto
azzardata) che la ricerca del senso (che secondo lui è caratteristica specifica
non degli umani in generale bensì della tradizione culturale giudaico
cristiana) potrebbe essere la causa principale stessa del disagio nichilistico,
non solo dei giovani attuali, a questo punto, ma dell’intero Occidente. Stiamo
male proprio perché siamo costantemente alla ricerca del senso. Il nichilismo che
ci attanaglia sarebbe solo la conseguenza estrema della nostra malata ricerca del senso. L’interpretazione
di Galimberti qui segue ovviamente Nietzsche più o meno alla lettera.
In
alternativa alla prosaica ricerca del senso, destinata a non avere alcuna
soddisfazione, destinata anzi a generare proprio il nichilismo, Galimberti
propone un ritorno ai Greci. La cosa
suona, a prima vista, davvero un poco bizzarra, poiché, per la maggior parte
delle persone appena un po’ acculturate, la tradizione giudaico cristiana, è
nota proprio per avere incorporato la cultura greca. Dunque la perniciosa “ricerca
esasperata di senso” si sarebbe manifestata fin da subito anche e soprattutto presso
i Greci. Del resto, la filosofia occidentale, nella comune accezione, si è
sempre occupata della ricerca del senso. Fin dai filosofi presocratici.
8. Ma allora, cosa vuol dire Galimberti? Di quali Greci sta
parlando? Galimberti è piuttosto ambiguo, poiché parla di un non ben precisato daimon che i giovani dovrebbero imparare
a scoprire dentro di sé e a coltivare. Cosa è l’arte del vivere di cui parla? Come dobbiamo intendere lo gnothi seauton? Apparentemente, il
discorso di Galimberti sembrerebbe essere di tipo socratico, ma allora non
avrebbe senso contrapporlo così decisamente alla cultura giudaico cristiana. In
realtà Galimberti ha in mente una ben precisa interpretazione anti cristiana (e antisocratica) della cultura dei
Greci, cioè quell’interpretazione alquanto discutibile che ha origine nella
romantica Nascita della tragedia di
Nietzsche e che poi si è sviluppata, attraverso la filosofia continentale successiva,
in Heidegger e nei suoi epigoni.[12] Il recupero del daimon interiore, la pratica dell’arte di vivere, la condanna della
ricerca del senso, fanno più che altro riferimento a Dioniso, che per Nietzsche
era l’antagonista per eccellenza di Socrate. Il lato alternativo alla cultura
greca ufficiale.
9. Solo sotto la luce nera di Dioniso si comprendono, nel
fraseggio di Galimberti, “la gioiosa curiosità di scoprire se stessi”, l’ “espansione
della vita” e la “potenza creativa” della giovinezza. L’unico elemento, tra quelli
citati, che sarebbe estraneo al dionisiaco è il katà métron, che è senz’altro una concessione al socratismo.
Qualsiasi misura, infatti, implica,
di già, la definizione di un qualche senso. Forse si tratta di un’allusione a
quello che, secondo Nietzsche, sarebbe stato il breve momento miracoloso della sintesi tragica tra apollineo e
dionisiaco. Galimberti recupererà, nel seguito delle sue argomentazioni, proprio
i tratti salienti di una analoga sintesi, o avvento di una condizione di equilibrio instabile, che egli ritrova nelle
nozioni da lui proposte del nomadismo
e dell’etica del viandante. Cioè, di
un pensiero e di un’etica capaci di operare senza alcun punto fisso di
riferimento. 
Noi nel
nostro piccolo avevamo sempre pensato, invece, che coloro che son colpiti dal
nichilismo avessero per lo meno bisogno, per uscirne, di qualche punto fisso di
riferimento. O al più rimpiangessero di non averne uno. Come ognun vede, quella
di Galimberti costituisce un’indicazione piuttosto paradossale, e cioè di procedere
a un alleggerimento della cultura, proprio in un’epoca nella quale avremmo decisamente bisogno di più cultura.
Un invito a lasciar andare via anche quel poco di senso che c’è rimasto,
convinti che l’epoca del senso sia
ormai irrimediabilmente finita e, soprattutto, convinti che nel flusso del pensiero e dell’etica nomade staremo
tutti senz’altro meglio.
10. Si tratta dunque, secondo Galimberti, di sostituire, alla
ricerca considerata ormai vana e superata del senso della vita, una nuova nozione
– che a noi parrebbe invero più romantica che greca – della vita come arte totale. Non tuttavia di
un’arte meccanica si tratta, e neanche intellettuale, bensì di un’arte intesa come
espressione di sé, ove soltanto si
potrebbe realizzare il miracoloso equilibrio
nomade tra daimon e métron. C’è un punto che a mio modesto
avviso va precisato. Tutti coloro che fanno proposte simili, che credono fortemente
nella vita come espressione, tendono a dare per scontato di aver dentro una
incomparabile ricchezza nascosta, che stia lì, solo ad aspettare di venir
fuori. Si tratta solo di togliere via gli impedimenti. In una versione
democratica di queste teorie, tutti sarebbero egualmente ricchi di queste
mirabili risorse interiori, dunque ci sarebbe abbondanza di speranza per tutti.
Per cui
siamo spinti a concludere che la proposta terapeutico – culturale di Galimberti,
proprio per i suoi presupposti, non può che risultare del tutto inconsistente.
A chi manifesta o denuncia, più o meno consapevolmente, di avere il vuoto dentro, Galimberti sembra prescrivere qualcosa come:
«Esprimi quello che hai dentro». O, peggio: «Diventa quello che sei». Quello
che hai dentro, oppure quello che sei allo stato originario – a meno che tu non
pensi di essere un Dio – altro non è se non il coacervo magmatico delle
emozioni, l’istinto di branco dell’animale, il complesso disparato di tutti gli
impulsi grezzi, come questi sono prima che siano resi consapevoli ed educati in
un contesto culturale qualsiasi. Il risultato di simili prescrizioni, un effetto perverso vero e proprio, non può
essere allora altro che proprio il furore
di cui parlava De Martino. La terapia
culturale proposta da Galimberti potrebbe alimentare e aggravare la malattia culturale stessa che invece
egli intenderebbe curare.
11. La strada proposta da Ernesto De Martino è decisamente un’altra.
Il nichilismo, lo sprofondamento nel nulla, è un pericolo esistenziale cui è
continuamente esposto l’animale culturale umano. Questo accade perché sotto la coperta
della cultura – la sola che ci rende quel che siamo – c’è solo la nostra natura
animale, positiva e pregevole fin che si vuole, ma pur sempre animale. Quando,
per qualche motivo estrinseco, si affloscia l’orizzonte di senso che ci viene dalla
cultura – allora perdiamo la storicità,
perdiamo cioè il fine, perdiamo il
senso dei valori, il senso del nostro
impegno nella società e il senso della
nostra prassi nella storia. Perdiamo
la nostra stessa individualità. Non
sappiamo più donde veniamo, chi siamo, dove andiamo. È questo un rischio
costante cui l’animale uomo è da sempre sottoposto, poiché esso è – appunto – l’animale
culturale per eccellenza. Occorre allora esser consapevoli di questa specifica condizione umana e procedere, di
conseguenza, a un’opera costante di reintegrazione,
cioè a una opera di manutenzione dei
rapporti che intercorrono tra la nostra parte culturale e sociale (quella che è
stata definita come l’altro generalizzato[13])
e la nostra parte animale (la natura di cui facciamo indissolubilmente parte).
12. Questa manutenzione dei rapporti tra natura e cultura, dice
De Martino, non può limitarsi a essere di tipo meramente individuale, perché
andando a scavare nella carne della nostra natura individuale, troveremo sempre
e soltanto lo stesso nulla che vi trovano tutti. O, se vogliamo, potremmo
trovare quelle poche cose elementari che l’evoluzione ha fatto per noi.[14] La
manutenzione del rapporto natura/ cultura non è dunque un fatto privato e
personale, deve invece passare necessariamente attraverso i rituali collettivi della cultura stessa.
La reintegrazione non può che avvenire attraverso la dimensione simbolica, che è sempre
culturale e collettiva, anche quando viene interiorizzata dai singoli. Anche
quando ce ne dimentichiamo.
13. L’emersione del vuoto nelle nostre vite, cosa che talvolta ineluttabilmente
avviene, non è dovuta all’ospite
inquietante di Galimberti, nato dalla tracotanza
assiologica giudaico cristiana risalente a svariati secoli or sono. È
dovuta alla nostra fortuita e sopravvenuta incapacità nell’uso dei rituali
collettivi di reintegrazione a livello simbolico.[15] De Martino, riferendosi
alle società semplici, parla in tali casi di cerimonie tribali, parla del
carnevale o dei Saturnali. Trasferendo tuttavia l’equivalente di questi rituali
nella nostra società occidentale, complessa e tecnologica, i problemi si
complicano. Perché cose come il rischio
della presenza e la perdita della
storicità assumono aspetti del tutto nuovi e imprevisti. E di enorme
portata. E così, oggi, l’esigenza dei rituali di reintegrazione si presenta in
forma allargata e totalmente nuova. Rispetto alle società primitive, i problemi
che abbiamo oggi hanno a che fare in gran parte con l’affievolimento (o la
complicazione) dei rituali collettivi in
presenza, quelli che chiamiamo face
to face. Sono questi i rituali della vita quotidiana di cui ha ampiamente
trattato l’interazionismo simbolico.
E questi hanno a che fare, anche e soprattutto, con varie forme di sconnessione,
nella nostra esperienza, tra le marche
simboliche e le marche emotive. È
bene ricordare che le marche emotive sono proprio quelle che – dentro di noi –
regolano il rapporto tra natura (il corpo) e cultura (il simbolismo
collettivo).
14. È da notare che la sconnessione tra l’emotivo e il
simbolico si presta a essere molto più frequente in una società complessa
piuttosto che in una società semplice. Nelle società semplici difficilmente si
sfugge alla mobilitazione delle emozioni intorno al patrimonio simbolico
riconosciuto immediatamente da tutti a livello locale. Nelle società complesse,
invece, il simbolismo acquista un volume e una autonomia enormi e così può
accadere che la dimensione emozionale, collettiva e individuale, venga facilmente
sconnessa, oppure possa anche trovare una moltitudine di connessioni improprie.
Basti
ricordare come l’isolamento forzato del covid abbia fatto scoprire, a una
moltitudine di studenti, solitamente distratti da mille cose, l’essenzialità
del rapporto in presenza con gli
insegnanti e con la propria classe. Basti ricordare che, di fronte alla
crescita degli episodi di violenza tra i giovani, da più parti si richiede l’adozione
di una sorta di educazione affettiva,
obbligatoria e gestita dalla scuola pubblica. Oppure si ricordi la devastazione
operata dagli smartphone, nell’ambito
dei rapporti face to face, nei
confronti di intere nuove generazioni, come è stato comprovato dagli ormai
celebri lavori di Twenge e Haidt. Oppure, ancora, si pensi ai danni colossali
per la democrazia causati dal progressivo affievolimento dei rituali formali e
informali della partecipazione politica.
Ma va notata anche la comparsa di nuovi rituali collettivi decisamente
perniciosi – che si servono magari anche delle nuove tecnologie – come quelli
del razzismo o del populismo, o di movimenti demenziali come QAnon.
15. Si tratta allora di prendere consapevolezza, di comprendere fino in fondo, anche nel dettaglio delle micro interazioni, come avvenga effettivamente la sempre avventurosa e mai garantita costruzione dei legami sociali e culturali, quei legami che – soltanto loro – sono in grado di tenere a bada il nichilismo, cioè il vuoto di senso. Come avvenga la costituzione stessa della società come entità morale (il termine è di Durkheim). E quali siano invece le forze disgregatrici cui le società vecchie e nuove, sono sottoposte. Le risposte dell’antropologia culturale, della psicologia sociale, della sociologia e della linguistica sono ormai abbastanza chiare e convergenti. Sulla linea di De Martino, disponiamo oggi di una tradizione teorica che comprende figure decisive come Durkheim, Mauss, GH Mead, Merton, Geertz, Goffman, Douglas, Collins, solo per citarne alcune Abbiamo dunque ormai un’ampia disponibilità di elementi di teoria sociale con cui possiamo effettivamente affrontare i problemi della costruzione del senso, della solidarietà sociale e delle identità collettive. Evitando accuratamente i danni dei deragliamenti nichilisti alla Galimberti. Qui, per esser questa una postfazione, non mi posso dilungare oltre. Se ci sarà qualche interesse, avrò modo eventualmente di tornare su queste tematiche.
Giuseppe Rinaldi (14/10/2012 – rev. 3/11/2025)
OPERE CITATE
1962 De Martino, Ernesto, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano.
2007 Galimberti, Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano.
NOTE
[1] Il suggerimento di procedere alla pubblicazione di questo saggio è
nato nell’ambito di una discussione, presso Città
Futura, ove era emersa l’esigenza di meglio comprendere i fenomeni, sempre
più dilaganti e preoccupanti, del disagio individuale, della aggressività e
della violenza. Spero che, con tutti i suoi limiti, esso possa fornire un
qualche utile contributo. Questo saggio è stato da me originariamente
pubblicato sul sito Finestre rotte il
14/10/2012, con il titolo de L’illusione necessaria.
Ha poi subito alcuni rimaneggiamenti, fino alla versione che qui presento, con
una nuova titolazione, meno metaforica e più aderente al contenuto. Alla nuova
versione mi è sembrato utile aggiungere una postfazione, relativamente ampia,
che ha come principale oggetto il confronto tra la nozione del nichilismo
demartiniano con quella, opposta, del nichilismo filosofico, come trattato
nell’ambito della tradizione nicciano - heideggeriana. In questo confronto mi
sono servito del saggio L’ospite inquietante
di Umberto Galimberti. In calce, ho inserito qualche breve considerazione sui
rituali collettivi di reintegrazione come sono oggi concepiti e concepibili
nell’ambito delle scienze umane. Nella scrittura non ho utilizzato strumenti di
AI. 
[2] De Martino, 1962: 225-226.
[3] De Martino, 1962: 227.
[4] De Martino, 1962: 228.
[5] De Martino, 1962: 231.
[6] Cfr. Galimberti 2007.
[7] All’epoca, l’opinione pubblica era stata scossa dai famosi lanci di
sassi dal cavalcavia, azione altrettanto priva di senso delle devastazioni di
Stoccolma di cui parla De Martino.
[8] Cfr. Galimberti 2007: 11.
[9] Cfr. Galimberti 2007: 12.
[10] Cfr. Galimberti 2007: 13.
[11] Cfr. Galimberti 2007: 14. Le traslitterazioni dal greco sono di
Galimberti stesso.
[12] Che questo sia esattamente ciò che ha in mente Galimberti è
piuttosto inequivocabile. Soltanto per brevità evito di esaminare, per filo e
per segno, tutto il testo, del quale peraltro ho prodotto una ampia schedatura.
A testimoniare dell’ispirazione nicciana in questo testo sta il fatto –
dettaglio curioso ma significativo – che 
il penultimo capitolo sia dedicato alle emozioni e alla musica. 
[13] Si tratta di un concetto elaborato nell’ambito dell’interazionismo simbolico.
[14] L’uomo, proprio perché è destinato evolutivamente ad avere
necessariamente una cultura, è solo debolmente determinato e vincolato dal
patrimonio istintivo genetico. 
[15] Durkheim, nel suo noto saggio sul Suicidio, ha introdotto la nozione di anomia, che non cessa di essere discussa e utilizzata, seppure con
modifiche e aggiornamenti.
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