1. Che il Cinema[1] fosse ormai un morto che cammina era
evidente da un pezzo. Per Cinema, intendo qui l’unico cinema per me degno di
questo nome e cioè il Cinema d’Autore. L’altro Cinema sta benissimo.
Personalmente, da un paio d’anni non vado più al cinema. Ho fatto però un’eccezione
per Il sol dell’avvenire, il lavoro più
recente di Nanni Moretti. Intanto perché proprio Moretti può essere considerato
effettivamente un Autore e poi, senz’altro, per motivi personali, poiché questo
Autore, come altri del resto, mi ha accompagnato in lungo e in largo, in tanti
momenti della mia vita. Il film in questione è stato, mi pare, accolto piuttosto
positivamente, è stato ovunque plaudito e non ho avuto sentore di critiche
sostanziali.[2] Il film è stato plaudito, certo, tuttavia non mi pare di avere
colto, tra tutti gli applausi, una prospettiva interpretativa dotata di qualche
solidità. Tutti d’accordo, senza sapere perché.
2. Siccome ho visto il film solo poco tempo fa, e dunque con
un certo ritardo, mi era capitato di fare, a diversi amici che lo avevano già
visto, la classica domanda: «Com’è il film?». Sempre le stesse risposte: «Bello!»,
«Interessante!», «Eh!, il solito Moretti!». Sì, ma cosa vuol dire? «Mah, non è
molto chiaro, ci sono dei film nel film». Per finire nell’immancabile: «Magari
sarebbe il caso di rivederlo!». Diciamolo pure, questo film di Moretti è un
film di cui, alla prima visione, non si capisce proprio un accidente di niente.
E anche dopo una seconda visione non ci si sente tanto bene.
Sento già la cantilena:
«Sei vecchio! Sei ancora uno che vuole avere il significato complessivo! Il
significato di un’opera non c’è e non ci può essere. Oppure ci sono mille
significati. Come dire che non ce ne può essere uno che conti più di un altro.
Per questo è ormai del tutto inutile fare i dibattiti, tanto ognuno nei film ci
vede quel che vuole. E poi, nessuno è più disposto a confrontarsi e a cambiare
idea. Accontentati della superficie. Sotto la superficie c’è soltanto il
nulla!». Dopo quarant’anni di critica
postmoderna[3] siamo purtroppo a questo punto. Siamo ormai da tempo passati
dall’opera aperta[4] all’opera spalancata. Per non sconfinare
dunque nei territori proibiti della critica postmoderna, premetto che questo
che state leggendo non dovrebbe essere inteso come un articolo di critica
cinematografica. E non sarà certo inteso come tale dai critici sedicenti. Questo
è soltanto un modesto e paziente esercizio
di lettura del film, peraltro forse anche piuttosto noioso, tanto per
andare oltre alla prima visione, con qualche pretesa in più di analisi e di riflessione,
proprio a partire dal testo. In generale, i presupposti della mia comprensione
di un film implicano, ahimè, che lo si debba in qualche misura raccontare.[5]
Soprattutto nel caso di un film come Il
sol dell’avvenire che è terribilmente denso e, in qualche misura, proprio non raccontabile. In casi come questo, soprattutto
i dettagli costituiscono il materiale testuale indispensabile che può poi
supportare le analisi, le argomentazioni e, infine, l’eventuale giudizio. Ma i
dettagli possono anche servire per parlare
di altro, poiché un qualsiasi testo è pur sempre connesso, per vie
imperscrutabili, con il Testo universale.
Tanto per anticipare le
conclusioni della mia analisi, a me è parso, per dirla in estrema sintesi, che
con questo suo film Nanni Moretti abbia deciso di affrontare, con una prospettiva
dall’interno, proprio il tema, senz’altro di attualità, della morte del Cinema. Moretti, finalmente,
dice «qualcosa di sinistra», non sulla sinistra che purtroppo abbiamo e ci
meritiamo, ma proprio sul Cinema.
3. Allora partiamo pazientemente dal testo. Solo così potremo accertare
se io e il mio lettore abbiamo visto lo
stesso film. Moretti è notoriamente un simpatico egocentrico e non poteva
che partire da sé stesso, questa volta, in particolare, dal suo stesso mestiere
di Autore cinematografico (“regista” qui mi parrebbe riduttivo, perché ci sono
tanti cani che sono “registi”). In quest’ultimo suo film si parla quasi
esclusivamente del Cinema. Si tratta di un film sicuramente autoreferenziale,
un film dove il Cinema viene usato per riflettere su se stesso. Si può anche
pensare che, al punto di crisi cui il Cinema è arrivato, questo sia ormai un
esercizio piuttosto inutile, fuori tempo massimo, ma tant’è. Moretti ha scelto
così. E per me ha fatto bene, poiché la sua riflessione è tutt’altro che
banale.
Il filone narrativo
principale del film, che cerca con qualche fatica di tenere insieme tutto l’arduo
coacervo, emerge solo poco per volta dalle vicende di cui sono protagonisti
Giovanni (impersonato dallo stesso Moretti) e Paola (Margherita Buy). Si tratta
di vicende che occupano sia il campo professionale sia il campo della vita
privata dei protagonisti, in un intreccio denso e inestricabile. Diciamo che la
dimensione privata farà fatica a emergere, ma poi si scoprirà essere forse la
dimensione principale. I due sono una coppia non più giovane e sono marito e
moglie. Lui fa il regista e lei la produttrice. Hanno una figlia Emma, che fa
la compositrice di musiche per film. Un’impresa casereccia, insomma, tutta incentrata
intorno al Cinema.
Veniamo quasi subito
avvisati che quella di Giovanni e Paola è una coppia in crisi. Questo si capisce poiché Paola è insoddisfatta
della sua relazione e va dallo psicoanalista, a insaputa di Giovanni. Vorrebbe
lasciare Giovanni, ma non ne è capace. Giovanni invece, alquanto egocentrico,
sembra tutto contento del suo rapporto con Paola, cita spesso il loro lungo
matrimonio e la loro collaborazione di quarant’anni nel campo professionale.
Paola, infatti, ha prodotto tutti i film di Giovanni. Solo ultimamente,
probabilmente proprio in relazione alla crisi coniugale, Paola si è risolta a
produrre, con l’appoggio finanziario di un gruppo coreano, un film con Giuseppe
(Giuseppe Scoditti), un giovane regista all’inizio della sua carriera. Giovanni
è completamente concentrato sul suo film che si titolerà Il sol dell’avvenire e su una serie di molteplici altri progetti.
Scoprirà tardi e male i problemi di Paola e il suo disagio nei suoi confronti.
Entrambi, poi, scoprono,
in maniera quasi casuale, che la loro figlia Emma si è innamorata di Jerzy, a
quanto pare console polacco, un uomo molto più anziano e maturo di lei, sebbene
persona simpatica e di notevole cultura. La vicenda di Emma, oltre a riproporre
la nota e ricorrente questione dei difficili rapporti intergenerazionali,
costituisce anche la sottolineatura di una certa difficoltà relazionale che si
respira nella famiglia di Giovanni e Paola.[6] Emma, avendo avuto un padre
artista che si mostra bizzarro e problematico, non avendo avuto cioè un vero padre,
evidentemente ha cercato un sostituto. E pare averlo trovato.
Giovanni, che fa il
creativo, è presentato come un personaggio egocentrico, secondo lo schema
morettiano classico. Paola gli rimprovererà di averla sempre considerata in
termini soltanto utilitaristici e ammetterà di avere in fondo sempre accettato
questo ruolo. Anche se ora (dopo quarant’anni!) non intende più continuare
così. Allo psicoanalista dice che lei e Giovanni parlano di tutto, tranne che di loro due. I due sembrano
in sintonia sul piano culturale e professionale ma del tutto incapaci di
discutere del loro rapporto affettivo. Su sollecitazione esplicita dello
psicoanalista, lei dichiara con fermezza di non voler affrontare l’argomento
della loro vita sessuale.
4. Accanto al filone principale dei rapporti interpersonali
tra i due, abbiamo poi una schiera di numerosi film nel film che si accavallano. E che sono spesso mostrati allo
spettatore con un montaggio vertiginoso, tanto da lasciare confusi e interdetti.
Proviamo intanto a vedere sommariamente quali film ci sono all’interno del filone
narrativo principale.
C’è intanto il film più
evidente, quello che Giovanni si accinge a girare e che investe lo spettatore
fin dall’inizio, di cui sappiamo il titolo: Il
sol dell’avvenire. Questo titolo è volutamente ambiguo: quando è usato
esternamente per indicare l’opera di Moretti allude al titolo del film di cui si narrano le vicende di realizzazione.
Quando è usato internamente allude al contenuto
del film che viene girato da Giovanni. Si tratta di un film che apparentemente
riguarda la storia del PCI nel 1956, nel frangente dei fatti di Ungheria.
Diciamo subito che questo film, nel corso degli eventi subirà disavventure
varie e sarà infine modificato, soprattutto nel finale previsto dal copione. Il
film è prodotto da Paola ed è cofinanziato da Pierre, un produttore francese piuttosto
superficiale che ammira senza riserve, in modo addirittura untuoso e servile,
il lavoro autoriale di Giovanni. Nel corso degli avvenimenti, Pierre metterà gravemente
a repentaglio la stessa lavorazione del film.
Poi c’è il film (il cui
titolo non è esplicitato) diretto dal giovane regista Giuseppe, prodotto sempre
da Paola, con una coproduzione coreana. Si tratta, eccezionalmente, della prima
produzione di Paola con un regista diverso dal marito. Una rottura dunque nelle
consuetudini ultradecennali della coppia. Il film sarebbe – si dice all’inizio
– una riproposizione shakespeariana del conflitto amletico tra il padre e il
figlio. In realtà comprendiamo ben presto che si tratta di un film di tipo splatter, piuttosto demenziale. Il
giovane regista viene mostrato come un creativo esaltato dalle scene di
violenza gratuita che abbondano nel suo film. Insomma, si tratta dell’esatta
antitesi del Cinema di Giovanni, che rifiuta invece la violenza gratuita, che
si rammarica di fare un solo film ogni cinque anni, che fa girare una scena
anche 20 volte. Mentre per l’istintivo Giuseppe è sempre «Buona la prima!».
Giuseppe e Giovanni sono evidentemente due modelli di Cinema che si collocano
uno all’opposto dell’altro. La scelta di Paola di produrre il film di Giuseppe
ha senz’altro qualche relazione con la sua crisi coniugale e con l’intenzione
di divorziare, ma ciò non è esplicitato più di tanto.
5. Ci sono poi almeno due accenni, vaghi ma ricorrenti, ad altri
film che il creativo Giovanni ha in progetto di realizzare. Come quello che
Giovanni ha già in fase di scrittura, quello che dovrebbe titolarsi Il nuotatore, in cui, alla lettera, un
nuotatore dovrebbe tornare a casa, passando da una piscina all’altra. Tratto da
un racconto di John Cheever. Un film decisamente bizzarro a proposito del quale
in una scena ci si domanda se, nella storia del nuotatore che salta di vasca in
vasca, sia più in questione lo spazio oppure il tempo. Se il film riguardi un
futuro utopico o distopico.
Oppure quello, a quanto
pare ancora solo in fase di pura immaginazione,
ma con due personaggi già perfettamente definiti e vividi nella mente del
regista. I quali ogni tanto si prendono il loro spazio. Il film dovrebbe essere
incentrato su cinquant’anni di vita di una coppia, e dovrebbe avere «tante
canzoni italiane». Alcune parti del film immaginato irrompono abbastanza
casualmente e vengono mostrate al pubblico in varie occasioni. Questo nel
progetto doveva essere un film d’amore, ma evidentemente, anche solo nel
percorso immaginativo, sfuggirà di mano al regista poiché i due protagonisti alla
fine si lasciano.[7] Tuttavia Giovanni, forse in un tentativo estremo di
salvare la storia d’amore, immaginerà anche un secondo finale, dove i due attori appariranno in un flash, in un prato, ridenti e felici con
due bambini piccoli, mentre fanno la danza dei dervisci sulle note di Battiato.
Giovanni sembra avere la propensione a riflettere sulle relazioni di coppia
solo attraverso la scrittura dei suoi film. Sembra ossessionato dalle
relazioni, eppure incapace di capirle e di governarle. Perfino gli elefanti, da
usare in scena, pare abbiano problemi a lavorare insieme sul set. A un certo
punto accade che «la loro familiarizzazione è fallita», dice Arianna, l’aiuto
regista.
Insomma, progetti, idee,
tentazioni di scrittura che Giovanni esibisce morettianamente, col suo solito
egocentrismo autoriale, a partire dalle sue ossessioni profonde. Attraverso
queste opere Giovanni/ Moretti sembra voler mostrare, dall’interno, le varie
fasi del lavoro autoriale, da quella puramente immaginativa (il film sulle
canzoni) a quella della elaborazione del copione (il nuotatore), a quella della
vera e propria lavorazione, come nel caso del Sol dell’avvenire. Nella storia dei due giovani è già posta la
questione del doppio finale, che avrà
esiti imprevisti. Oltre a questi film di cui si parla esplicitamente, ci sono tante
altre citazioni cinematografiche più o meno occasionali, unite a molte canzoni
che, di quando in quando, irrompono, più o meno a proposito. Tutti questi film e
tutti gli altri materiali si mescolano continuamente e interagiscono con le
tappe di lavorazione del film principale in cui Giovanni è attualmente impegnato
che è Il sol dell’avvenire, quello
sul PCI del 1956. Insomma, per quanto possa essere anche intrigante, siamo di
fronte a un gran minestrone. Di tutto e di più. E ciò contribuisce a fare del
film un’opera non facilmente fruibile. A volte lo spettatore fa fatica a
seguire le diverse repentine soluzioni di continuità. Pezzi di vita personale
della coppia Giovanni/ Paola e della figlia, che s’intrecciano costantemente
con i pezzi dei film in lavorazione o in progetto. Cinema e vita per davvero. Fino all’esasperazione.
6. Giovanni è tutto concentrato sul suo lavoro creativo e
procede nella lavorazione del suo film, Il
sol dell’avvenire, inconsapevole di ciò che lo attende. Lo stile che usa
sul set è quello cui Moretti ci ha abituati: egocentrico, maniacale, dispotico.
Potremmo dire dittatoriale, tanto per
evocare una delle tematiche politiche del suo stesso film. Ma vediamo il film
più in dettaglio. In apertura, lo spettatore incappa nella lavorazione da parte
di Giovanni del film sul PCI del 1956, tanto da far pensare che proprio questo
sia il film che vedrà. Un film storico politico. Siamo a Roma. I titoli di
testa si aprono con la scritta Il sol
dell’avvenire sul muro, seguita poi dall’inaugurazione dell’arrivo della
luce elettrica al Quarticciolo, il quartiere romano dove è ambientata la storia.
Si capisce che a promuovere l’impresa dell’elettrificazione sia stata la locale
Sezione Gramsci del PCI, guidata da Ennio Mastrogiovanni (Silvio Orlando) e
dalla sua collaboratrice Vera Novelli (Barbora Bobuľová).
Diverse recensioni hanno
presentato Ennio e Vera come marito e moglie. Anche Wikipedia lo sostiene. Tuttavia
nel testo del film non c’è proprio nulla che lo dica esplicitamente o che lo
suggerisca implicitamente. C’è in effetti una scena in cui Vera prende le
misure a Ennio per una giacca nuova. Qui i due si ritrovano sullo sfondo di un ambiente domestico e non nel
solito ufficio della sede del partito. Ma siamo già stati avvertiti che Vera,
di mestiere, fa la sarta, dunque la situazione non può essere invocata come segno certo di vita coniugale. Giovanni
poi, nel dirigere la scena, tende a negare qualsiasi relazione affettiva tra i
due e rimbrotta l’attrice che interpreta Vera per essere troppo seduttiva. Quel che deve emergere, evidentemente, non è una eventuale
vita privata dei due ma solo la loro stoica attività di militanza politica. L’attrice
che interpreta Vera, sul set, abbastanza chiaramente tende invece a ricamare su
un’ipotetica attrazione tra i due. Nel corso degli sviluppi del film saranno i
due attori (per capirci, Orlando e la Bobuľová) a manifestare progressivamente un’attrazione
reciproca, ma in quanto attori sul set, ben oltre la rigida estraneità
richiesta dai loro due personaggi. Che i due siano o meno marito e moglie, non
sfugge comunque allo spettatore che il sodalizio di militanza politica tra Vera e Ennio è esattamente analogo al
sodalizio di militanza cinematografica tra
Giovanni e Paola. Un sodalizio che tendenzialmente esclude la vita privata.
Che nel film si stia girando un film lo spettatore lo
capisce poco per volta, nel passaggio continuo tra le scene girate e il lavoro
di troupe. In particolare, durante un
briefing con i suoi collaboratori,
Giovanni è costretto a spiegare ai più giovani gli aspetti storici più
elementari che costoro ignorano del tutto. Ebbene sì, in Italia c’erano i comunisti! Giovanni viene
presentato come un esperto di quell’epoca, quello che sa quel che accadeva,
tanto da poterci fare un film sopra con una certa sicurezza. Ma, come vedremo,
non bisogna credere del tutto a questa impressione. Giovanni comunque è dipinto
un po’ come il testimone di un’altra epoca che i giovani odierni non sanno più neppure
immaginare. Testimone anche di un modello
di impegno politico come quello dei comunisti italiani di allora, oggi
impensabile. Insomma, Moretti sente il bisogno di proporci, attraverso il
lavoro di Giovanni, un viaggio nel tempo.
Vedremo con quale scopo.
7. Lo spettatore è indotto a interrogarsi più e più volte su
cosa abbia in mente Giovanni nel girare il suo film. Apparentemente sembrerebbe
voler essere un film storico, intorno alle vicende di una sezione romana del
PCI, nel frangente drammatico dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.
Lo spettatore tuttavia si accorge ben presto che non si tratta di un film storico. Il che si chiarisce poco a poco, soprattutto
di fronte alla disinvoltura del regista proprio rispetto ai fatti e ai
documenti storici.
Apparentemente Giovanni
mostra attenzione per la ricostruzione esatta degli ambienti. Un tormentone ad
esempio è quello di alcuni oggetti di scena “fuori tempo” che Giovanni
rintraccia e di cui rimprovera Diego, il tecnico di scena. Poi si chiarirà l’origine
di questi oggetti vaganti. Ma l’ossessione per la documentazione storica si
trova sempre in bilico tra il vero e il falso. Le etichette autentiche delle
acque minerali del tempo non piacciono a Giovanni, tanto da volersene inventare
una: l’Acqua Rosa, in omaggio a Rosa Luxemburg.[8] Il titolo originale de l’Unità
che annuncia l’invasione non va bene perché è troppo lungo, dunque si può
liberamente accorciare, cioè falsificare. La foto di Stalin, la cui presenza è
del tutto verosimile nella ricostruzione di una sezione del PCI di quell’epoca,
si deve stracciare «perché Stalin è un dittatore», e così via. Avremo poi modo
di discutere anche del finale del film, che, sul piano storico, stravolgerà
completamente gli avvenimenti.
Nel film che Giovanni
sta girando, si fa senz’altro molto uso
della storia ma non si può proprio dire che si tratti di un film storico. Certo,
ci sono anche citazioni storiche puntuali, soprattutto sul costume dell’epoca.
Ad esempio, l’importanza del giornale di partito, l’Unità; il rito condotto da
Ennio dell’intervista a coloro che chiedono l’iscrizione al Partito; il
controllo asfissiante sulle abitudini sessuali personali degli iscritti e il
pressante controllo ideologico. Tuttavia tutto ciò costituisce più che altro
uno sfondo, ed è ben lungi dal costituire il centro del film. La ricostruzione di
costume evidentemente è solo un mezzo per altro.
8. L’attrice interprete di Vera, in seguito a uno degli
innumerevoli battibecchi con Giovanni, pone il problema e ipotizza che si
tratti di un film d’amore travestito
da film politico. I rapporti tra
Giovanni e questa attrice sono sempre piuttosto tesi. In questo quadro si
colloca la sua insofferenza per il fatto che lei indossi i sabot, le ciabatte. Giovanni viene mostrato discutere seriamente
con Paola se licenziare l’attrice che considera disobbediente e inopportuna,
con tutte le sue domande sul film, con le sue idee sul personaggio e poi, con
le ciabatte. Pur di cacciarla, sarebbe disposto a rigirare con un’altra attrice
il materiale già realizzato.
Tra l’attrice che
interpreta Vera e Giovanni si instaurerà una vera e propria dialettica, non
solo incentrata sulla natura del film ma soprattutto sull’autonomia dell’attore
nei confronti del copione. Su questo argomento viene tirato in ballo lo stile
di regia di Cassavetes, disposto a un lungo lavoro di discussione con i suoi
attori. Giovanni, stizzito, ci tiene a precisare che il suo stile sta all’opposto
di Cassavetes. Si tratta di una questione evidentemente di qualche rilevanza
per Moretti e che serpeggia un po’ per tutto il film. Tutti i tentativi da
parte degli attori di dire la loro sul copione tuttavia sono cassati. Solo
verso la fine, con una specie di ribaltone, la rielaborazione del finale del
film sarà il frutto di una specie di adombrata riscrittura collettiva.[9]
9. Poco a poco si chiarisce che non solo si tratta di un film
su una storia d’amore (e poi, vedremo, di altro ancora) ma anche che Giovanni,
nella scrittura del film, sta usando inconsapevolmente una serie di meccanismi proiettivi. Del resto è noto
l’interesse di Moretti per la psicoanalisi. Giovanni evidentemente proietta nei
suoi personaggi elementi della sua vita privata dei quali non è del tutto
consapevole o intorno ai quali tende a rimuovere. Vera è abbastanza chiaramente
la trasfigurazione di Paola, che forse, nelle intenzioni di Giovanni, dovrebbe
essere tutta dedita alla causa, senza una vita privata e che dovrebbe reprimere
la sua sensualità. Una figura completamente idealizzata, fino a divenire
irreale. L’attrice che interpreta Vera tende invece costantemente a rompere
questo schema, irritando Giovanni. La scena in cui Vera, verso la fine del
film, restituisce la tessera costituisce,
in effetti, l’analogo di un divorzio.
Quando si girerà la scena della restituzione della tessera, dove il copione
prevede un tentativo articolato di chiarificazione tra i due, Giovanni reagisce
negativamente, si mostra allarmato e contrariato. Dice che la scena fa schifo e
così taglia via ogni dialogo, ogni tentativo di spiegazione e impone il
semplice gesto della consegna del documento. Subito dopo – trovata tipicamente morettiana
– parte la danza dei dervisci, con sottofondo di Battiato, che poco a poco
contagia tutta la troupe nello
studio. Le parole possono essere pericolose. Meglio l’estasi derviscia.
10. Se Vera è la trasfigurazione di Paola, allora il dirigente politico
Ennio funge perfettamente da alter ego di Giovanni. Lo suggerisce anche il
cognome scelto, Mastrogiovanni. Anche di Ennio nulla si dice di personale. La
sua dedizione alla causa è totale, come la sua imbrigliatura dell’affettività e
della sessualità. Lo vediamo addirittura esercitare il controllo sulla moralità
sessuale dei suoi collaboratori. Un perfetto militante di partito di quegli
anni, apparentemente tutto d’un pezzo. Veniamo informati del fatto che Ennio ha
un certo peso nel PCI poiché è anche nientemeno che redattore de l’Unità,
dunque assai vicino alla Direzione romana del PCI. Insomma, il tipico
intellettuale militante comunista degli anni Cinquanta. Grazie a questa sua
posizione, Ennio può promuovere le iniziative amministrative e politiche della
sezione del Quarticciolo. Può invitare addirittura Togliatti alle sue
iniziative. Può decidere cosa si deve pubblicare sul giornale. C’è una
componente di tacito fanatismo nella figura di Ennio in cui evidentemente
Giovanni proietta il suo stesso fanatismo
autoriale.
Evidentemente, per
Giovanni, nella relazione di coppia, le parole non servono. Anzi, sono
pericolose. È evidente che Giovanni, inconsciamente, proietta nei due
protagonisti del film che sta facendo la sua situazione irrisolta con Paola. Il
suo bisogno di comunicare si risolve volentieri nei gesti, nella musica, nella
danza. Tutto va bene, purché rimanga confinato nel non detto sul piano verbale.
Il film che Giovanni sta dunque girando appare dunque sempre più come un gigantesco meccanismo proiettivo della
sua stessa vicenda personale. Ci sentiamo allora autorizzati a domandarci se
anche secondo Moretti questo non sia proprio il senso della scrittura filmica
in generale. Qui potrebbe trasparire una teoria
psicoanalitica della autorialità, ma Moretti non si impegna più di tanto.
11. Una trovata sicuramente efficace è quella che permette a
Giovanni la connessione tra la Budapest del 1956 e la sezione romana del PCI. Si
tratta dell’arrivo, proprio su invito della Sezione Gramsci del Quarticciolo,
del circo ungherese Budavari, proprio nei giorni in cui avverrà l’invasione
della Ungheria e la conseguente rivolta di Budapest. L’arrivo dà luogo a
fermenti di solidarietà e a festeggiamenti vari con i “compagni” ungheresi. Qui
Moretti ne approfitta per giocare con le memorie felliniane, sue e dei suoi
spettatori. Alla prima dello spettacolo del circo si diverte con tendoni,
pedane, musiche da circo, cavalli, acrobati e clown. Alla serata inaugurale del
Circo è anche presente Togliatti, che però s’intravvede soltanto e che Giovanni,
discutendo con l’aiuto regista Arianna, non vuol mettere in primo piano.
A un certo punto della
serata però, Togliatti e i suoi accompagnatori (sempre mostrati in ombra) si
alzano di scatto e abbandonano lo spettacolo di corsa, come colti da una
notizia sconvolgente. Alla fine della serata tutti allora si precipitano in un
appartamento vicino, dove hanno la televisione, per sapere cosa è successo. Le
immagini sono spietate. I carri armati sovietici sono entrati a Budapest ed è
iniziata la repressione. I titoli de l’Unità poi rendono chiaro che la
Direzione del PCI ha condannato duramente la rivolta di Budapest e ha appoggiato l’intervento dei carri armati.
12. Faccio osservare che in una simile occasione, dove si
manifestava solidarietà col nuovo corso ungherese, la presenza di Togliatti era
altamente improbabile. Un Togliatti filo ungherese, inconsapevole e “sorpreso”
dagli avvenimenti di Budapest, stride pesantemente con i fatti storici. La storiografia
ha ormai appurato in modo incontrovertibile che Togliatti fu tra coloro che
chiesero con insistenza a Mosca proprio di procedere all’invasione dell’Ungheria
per mettere fine al nuovo corso. Togliatti poi, non contento dell’esito dell’invasione,
fu tra coloro che appoggiarono la condanna a morte di Imre Nagy (il padre
ispiratore della rivolta ungherese, per chi non lo sapesse) e del generale
Maléter (l’eroico difensore di Budapest). Solo che Togliatti – è tutto ampiamente
documentato – chiese che la loro esecuzione capitale avvenisse solo dopo le elezioni italiane del 25 maggio
1958, perché il Migliore aveva paura di squalificarsi con l’opinione pubblica
italiana e di perdere voti. Chi abbia appena un po’ studiato gli avvenimenti,
queste cose le deve sapere. Se Moretti/ Giovanni si fosse minimamente
documentato, avrebbe evitato certe macroscopiche incongruenze. Se invece l’incongruenza
è voluta non se ne capisce proprio la ragione, forse per distinguere un
Togliatti moderato dai sovietici cattivi? In ogni caso, la hybris autoriale non giustifica il travisamento dei dati e dei
fatti storici. Ma alla critica e al pubblico queste cose non interessano. Proprio
perché il pubblico odierno non sa nulla dell’Ungheria del 1956, diffondere
versioni stravolte e/o edulcorate di quella storia rischia di mettere Moretti
un po’ sullo stesso piano dell’odiato Netflix. Il rischio è sempre quello di
sconfinare nel bullshit e/o nella postverità.
13. Tornando alla ricostruzione filmica, gli avvenimenti producono
la costernazione dei “compagni” ungheresi del Budavari, ma provoca anche una
lacerazione interna tra i militanti della sezione. E produce la spaccatura tra
la coppia militante Ennio/ Vera. Vengono così alla luce le differenze
accuratamente celate dal rigorismo della vita di partito. Ennio si rivela qui
come il dirigente inflessibile e ligio alle direttive, mentre Vera, aperta e
solidale, prende posizione per i rivoltosi. Vera combatte valorosamente la sua
battaglia per la libertà e si farà promotrice di una petizione con una raccolta di firme a sostegno degli
insorti. Forse, a nostro giudizio, questa è un’allusione al famoso “Manifesto
dei 101” che fu stilato da un centinaio di personaggi di primo piano della
politica e della cultura di sinistra in appoggio alla rivolta ungherese e che l’Unità
rifiutò di pubblicare. Il testo del Manifesto è qui riportato in nota.[10] L’appello
di Vera con le firme, che era destinato alla pubblicazione sull’Unità, segue
puntualmente lo stesso destino del vero Manifesto dei 101. Ennio, ligio alla
consegna del Partito, rifiuterà di pubblicare la petizione sul giornale. Tutto
ciò porterà Vera a riconsegnare la
tessera, atto che, probabilmente, implica anche una vera e propria rottura nel
campo dei loro rapporti personali. Per lo meno un divorzio simbolico. Ma di ciò per Giovanni poco o nulla si deve
mostrare.
Moretti dunque,
attraverso le scene girate da Giovanni, ci fa vedere, pur con qualche grave stravolgimento,
quello che serve a intendere, in termini davvero elementari, la questione del
1956 anche dal lato storico. Tuttavia,
a questo punto, quella che poteva anche sembrare l’avvio di una riflessione
politica sul comunismo viene in un certo senso sospesa. Giovanni qui, giunto a
mostrare la crisi della militanza che sopravviene nei suoi due personaggi,
comincia a essere sempre più impegnato da questioni personali. Avanzano sempre
più i segni di una crisi della sua stessa militanza professionale, la militanza cinematografica. I segni cioè
di una crisi dell’Autore e del suo Cinema.
Nello stesso tempo prendono spazio le questioni, sempre più problematiche,
riguardanti la lavorazione stessa del film. Questioni che hanno a che fare con
il lato economico della produzione,
ma anche con il significato stesso del
film.
14. Dapprima il confronto tra Giovanni e Paola avverrà sul
piano dei loro rapporti professionali
e non su quello dei loro rapporti personali, che restano sempre rigorosamente
nel non detto. Giovanni non pensa neppure che ci sia qualcosa da discutere,
mentre Paola continua a non essere capace di dire a Giovanni quello che davvero
pensa e vuole. Cioè la separazione. Un primo confronto drammatico avverrà sul
piano delle scelte etiche ed estetiche
coinvolte nel nuovo film prodotto da Paola, insieme con i coreani. Ed è di
questo che converrà ora occuparci. Di questo film non ci è detto neppure il
titolo. Sappiamo solo che il giovane regista Giuseppe aveva esordito con un
film intitolato Orchi. Titolo che comunque
è già tutto un programma. A Giovanni, in giro per Roma, era già capitato di
trovarsi sul set del film dove si riprendeva la scena di una sparatoria, con un
Giuseppe dietro la macchina da presa, esaltato come uno psicopatico, a mimare le
mitragliate. In un altro luogo del film si dice, en passant, che sul set di Giuseppe si stava girando una scena con
bambini disciolti nell’acido. Ora Giovanni capita per caso, con Paola, sul set dove
si sta girando, con una certa aria di festa, proprio l’ultima scena del film. Si tratta di un’esecuzione mediante un colpo
di pistola in fronte, con molto sangue sparpagliato, dove un esecutore, in
piedi, punta una pistola contro una vittima inginocchiata. Non sappiamo chi
siano e non conosciamo la storia che c’è dietro.
Giovanni interviene
bruscamente e interrompe la scena con un’accusa pesante a Giuseppe: «La scena
che stai girando fa male al Cinema, lo capisci? Fa male alle persone, allo
Spirito. Fa male a te che la giri e a noi che la guardiamo!». Inizia così un
lungo monologo sulla questione, che potremmo catalogare sotto la rubrica di cinema e violenza. Si tratta di una
parte davvero interessante ed efficace, anche se apparentemente priva di legami
con la lavorazione de Il sol dell’avvenire
su cui lo spettatore era stato indotto a concentrarsi in precedenza. Giovanni
tiene tutti in sospeso “per tutta la notte” – così ci vien detto – in cui si esibisce
in una filippica ininterrotta contro la violenza nel cinema. Si tratta di un’orazione
che ha davvero dei punti notevoli. In ciò, come aveva già fatto Woody Allen con
McLuhan,[11] chiama in supporto della sua tesi illustri personaggi come l’architetto
Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio, che nella sua veste di matematica spiega,
dal canto suo, «la geometria del lupo e dell’agnello». Cerca anche di
interpellare Scorsese per telefono. Rivolto a Giuseppe, che cerca confusamente di
giustificare il proprio operato, dice: «Il fatto è che a te la violenza proprio
piace, ne sei affascinato». Ancora: «Tutti sono in preda da anni di un
incantesimo. Poi una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché
vi renderete conto di quello che avete combinato». Stupendo poi, a mio modesto
avviso, è il monologo di Giovanni sull’episodio Non uccidere del Decalogo
di Kieslowsky. La troupe e tutti i
presenti sono ammutoliti. Sembrano tuttavia colpiti e incapaci di reagire.
Paola cerca di convincere Giovanni a smetterla e a permettere di girare l’ultima
scena del film. Solo all’alba, dopo la consegna dei cornetti da parte del
venditore di passaggio, all’esecutore esausto è permesso far partire il colpo
di pistola, ma il tutto si vede in lontananza, dietro le spalle di Giovanni che
si sta allontanando.
Sempre nel contesto del lungo
discorso sulla violenza, Giovanni rivolto a Paola, sul finire, aveva detto: «Nella
vita, due o tre principi bisogna pure averceli, no?». Paola irritata aveva risposto
che quel tipo di film lì li fanno tutti e li vedono tutti. E Giovanni amareggiato:
«Tu non eri come tutti!». Qui risuona evidentemente il richiamo al mondo
perduto del PCI del 1956, quando la fedeltà ai principi, quali che fossero,
poteva anche dare un senso alla vita, poteva determinare destini e rapporti tra
le persone. Qui è abbastanza chiaro che non c’è in gioco solo una polemica
contro l’uso della violenza nel cinema, bensì anche una presa di posizione contro la svolta commerciale del Cinema,
la tendenza alla produzione seriale di film che rincorrono i bassi gusti del
grande pubblico, scritti a tavolino da equipe sbrigative e girati da registi
altrettanto sbrigativi. Insomma, una polemica contro il Cinema che adotta lo
stile delle serie televisive. Una polemica contro il Cinema che ha messo da
parte l’Autore. Contro il tipo di Cinema cui Paola colpevolmente avrebbe aperto
le porte, cercando implicitamente la propria personale liberazione da Giovanni.
15. Possiamo a questo punto tentare di accennare una risposta appena
un po’ più complessa alla domanda: che c’entrano il PCI e l’Ungheria con la
violenza e con la morte del Cinema? Per capire questo punto essenziale dobbiamo
cercare di ricostruire i termini di quella che potrebbe essere stata la
riflessione morettiana – a dire il vero per i miei gusti un poco contorta –
sulla storia recente del cinema italiano.[12]
Quella riflessione che può averlo condotto a connettere l’Ungheria del 1956 con
i film splatter dei giorni nostri e
con le serie televisive. Si tratta certo qui di supposizioni, ma dotate di qualche fondamento in base a ciò che
Moretti ci ha mostrato finora.
Il Cinema d’Autore
italiano è stato quasi sempre un Cinema di sinistra. E questo è un fatto. La
genesi di questo Cinema sta nel neorealismo del secondo dopoguerra, nel
rapporto tra politica e cultura, così
com’era stato impostato proprio da Togliatti. E talvolta anche polemicamente
contestato. Si ricordi il famoso dibattito tra Togliatti e Vittorini. Per quel
mondo, che comunque agiva nel solco del sol
dell’avvenire annunciato dall’Unione Sovietica, il 1956 è stato effettivamente
un momento di grave crisi, di disorientamento, di riflessione. Abbiamo già
citato e riportato il Manifesto dei 101.
Molti intellettuali, in quel frangente, hanno rinunciato alla militanza
politica. Si sono scrollati di dosso l’occhiuto controllo del Partito. Ne è
testimonianza il dibattito, aperto proprio
nel 1956 sulla rivista Cinema Nuovo.[13]
L’avvio del dibattito fu promosso da un articolo di Renzo Renzi che si
intitolava «Sciolti dal “giuramento”».[14]
Tuttavia – e questo è il punto cruciale che forse interessa a Moretti – quegli
intellettuali che si erano allora emancipati dal Partito non hanno mai rinunciato all’impegno. Dopo la rottura del 1956, il
cinema autoriale ha continuato a sviluppare un suo impegno militante. Non più sotto le ormai truci bandiere rosse ma
sotto il vessillo dell’impegno autoriale
libero. Questo vale per l’Italia, ma anche per le più importanti
cinematografie straniere. Sembra dire Moretti che, anche quando, come nel suo
caso, ha sviluppato un cinema davvero molto personale, con i tratti di
egocentrismo che egli stesso ha sempre esibito, il suo Cinema non ha mai rinunciato all’impegno. A costo di esibire
anche maldestramente la propria dimensione più intima e personale, a costo di
fare un film ogni cinque anni, a costo di comportarsi sul set come un dittatore
autoritario: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?».
Per Moretti allora, di
fronte all’andazzo odierno del cinema commerciale, di fronte alle imposizioni
del mercato, di fronte alla progressiva corruzione dei gusti del pubblico, si
tratta di tornare a interrogarsi sul
senso dell’impegno dell’Autore. A interrogarsi, cioè, intorno al rapporto
tra politica e cultura, tra intellettuali e potere. Tra l’opera artistica, la
tecnologia e il mercato. E a interrogarsi sulle conseguenze sociali e culturali
di tutto ciò. Insomma, un richiamo alla
responsabilità. Interpretato in questo modo, quello di Moretti (per il
tramite del personaggio Giovanni) si configura come un vero e proprio appello.
Un Manifesto, se vogliamo. Una
chiamata a scegliere urgentemente da che
parte stare, giacché non è possibile
stare a metà, proprio come non era possibile stare a metà nel 1956: «[…] una mattina vi sveglierete e
incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete
combinato».
16. Ma riprendiamo il corso del filone narrativo principale. Intanto
per Giovanni si tratta di prendere atto del fatto che la lavorazione del suo
film è messa a repentaglio da un evento imprevedibile: l’arresto del
coproduttore Pierre da parte della Guardia di Finanza per reati fiscali. Così il
duro peso delle incombenze materiali si fa sentire. Si scopre che Pierre era
già ricercato fin dall’inizio della lavorazione del film e, per questo, si
nascondeva e soggiornava proprio negli studi. Era lui il disseminatore degli oggetti
“fuori epoca” e dei cartoni delle pizze che facevano impazzire Giovanni e di
cui egli rimproverava il povero Diego.
Pierre, che esce di
scena in maniera goffa e ingloriosa, aveva comunque già offerto a Giovanni una
soluzione per la continuazione del film. Rivolgersi a quelli di Netflix, che
avrebbero potuto essere interessati a subentrare nella produzione. L’incontro con
gli esponenti di Netflix si tiene effettivamente ed è narrato in forma
caricaturale, sebbene assai significativa. Questo incontro è davvero rivelatore
e offre allo spettatore una importante chiave di lettura del film di Giovanni
(e dello stesso film di Moretti). Il dialogo tragicomico che avviene tra le due
parti è fatto apposta per evidenziare la loro distanza lunare. Da un lato, Giovanni che spiega come San Michele aveva un gallo dei Fratelli
Taviani potesse essere, insieme, un film politico
e poetico. Dall’altro, quelli di Netflix che spiegano a che punto del film (cioè,
dopo 2 minuti!) lo spettatore medio decide se continuare a guardare o meno. Il
copione di Giovanni viene rifiutato perché sostanzialmente non soddisfa i
canoni del cinema commerciale e perché il contenuto deve essere suscettibile di
essere compreso universalmente, visto che Netflix è diffuso in ben «190 Paesi».
In estrema sintesi, poi, secondo Netflix rappresentato qui da una distinta
signora, nel copione manca il momento «What
the fuck!».
Sarà un caso, ma proprio
durante il colloquio con gli esponenti di Netflix Giovanni comunica allo
spettatore un’informazione sul copione che costituisce effettivamente un colpo
di scena, un vero e proprio momento What
the fuck!, un elemento finora accuratamente celato, intorno al quale
prenderà forma tutta l’ultima parte del film di Moretti. Dice Giovanni en passant: «San Michele aveva un gallo […] era un bellissimo film e finiva con
il suicidio del protagonista, proprio
come il mio!». Moretti, evidentemente, allude qui nientemeno che al suicidio di Ennio. Insomma, apprendiamo qui
che il “film d’amore” di Giovanni ha un finale tragico. Era piuttosto un film d’amore e di morte! Questa
novità è clamorosa ed è effettivamente in grado di unificare le due parti
apparentemente sconnesse del filone principale. Cominciamo forse a capirci
qualcosa!
17. Intanto, dopo il monologo sulla violenza e il relativo
scontro, Paola ha trovato il coraggio di esplicitare la propria intenzione di
separarsi e così si trasferisce nell’appartamento che aveva affittato da tempo,
proprio in vista della separazione. Giovanni va a dormire a casa della figlia
Emma. Dove Moretti ha modo di mettere a segno alcune ulteriori osservazioni di
tipo generazionale, discutendo di dipendenza, di sonniferi e antidepressivi.
Giovanni continua a non capire i motivi della separazione e continua a chiedere
a Paola di ripensarci. Paola mantiene la sua decisione ma, nello stesso tempo,
offre a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Grazie alla
mediazione di Paola, il copione del film viene fatto leggere ai coreani.
Sorprendentemente, i coreani ne sono molto colpiti e decidono su due piedi di
finanziarlo, subentrando così allo sciagurato Pierre. Qui la portavoce dei
coreani spiega accuratamente, in un modo che più chiaro non si può, il senso effettivo
del copione appena letto: «La sceneggiatura è stata davvero apprezzata.
Soprattutto il finale, così drammatico, senza speranza. È un film sulla morte
dell’arte, sulla morte dei comunismi, sulla morte dell’amore e della morale. È
proprio un film sulla fine di tutto quanto!». Giovanni risponde con un laconico:
«Certo!».
Forse un film d’Autore
sulla «fine di tutto quanto!» deve essere apparso ai coreani ben più potente
della violenza infantile e gratuita del film del giovane Giuseppe. O forse, più
semplicemente, per i coreani un film “sulla fine di tutto” è solo una corsa al
rialzo, la logica conseguenza del trend nichilistico aperto dai film splatter. O forse, ancora, Moretti ha
voluto fare una strizzata d’occhio benevola al nuovo cinema coreano?[15] Non è del tutto chiaro. Non è chiaro
neanche se la diagnosi dei coreani, cui Giovanni acconsente, sia anche la
chiave condivisa dallo stesso Moretti e valida dunque, estensivamente, per l’intero film. Un Moretti così didascalico
(e ideologico) da mettere nel film un’esplicita traccia per la sua corretta
lettura? Oppure Moretti tenta comunque ancora di mascherarsi e di sfuggire a
qualsiasi definizione?
18. Grazie all’intervento dei produttori coreani, si riprende a
girare il film. Tuttavia, al momento dell’ultima
scena del film, il finale «drammatico e senza speranza», cioè il suicidio
di Ennio, le cose si complicano. Sulla scena, Giovanni, per spiegare a Orlando/Ennio
come recitare l’impiccagione, gli dà questa dritta, con la sua voce strascicata:
«Pensa a quello che disse Calvino: Cesare Pavese si è ammazzato perché noi
imparassimo a vivere. Pensaci, poi però dimenticalo!». Poi, quasi come per una
coazione inconscia, Giovanni, nella sua foga di mostrare come fare, caccia la
testa dentro il cappio e se lo stringe al collo. Diventa allora chiaro che qui
si tratta proprio del suicidio dell’Autore, un suicidio sospeso tra la realtà e
la fiction. Gli astanti guardano la
scena palesemente angosciati. Paola è attonita. Forse per la prima volta Paola capisce
il dramma di Giovanni, messo per iscritto
da mesi nel copione del film, ma mai veramente approfondito e discusso.
Forse per la prima volta Giovanni è riuscito davvero a spiegarsi senza l’uso
delle parole – come ama fare – e a ottenere l’attenzione di tutti.
In quel momento tuttavia
si ha una specie di catarsi. O forse, più banalmente, a Giovanni si accende la
classica lampadina. Giovanni si toglie il cappio e decide che quella scena non avrebbe
più fatto parte del film. Insomma, rifiuta il finale che aveva previsto, quel
finale così necessario nell’economia del copione e così ammirato dai coreani.
Si noti che in precedenza aveva detto, en
passant, che l’intero film lo aveva scritto solo dopo che gli era venuto in mente il finale. Era stato dunque il
finale tragico, il suicidio, il motore dell’intera scrittura del film. Ma
allora, senza quel finale, che senso può ancora avere quel film?
Qui comunque appare ancor
più chiaro come l’alter ego psicoanalitico di Giovanni sia proprio Ennio, lo
stalinista riluttante. Colui che doveva essere destinato al suicidio per un
irriducibile conflitto tra sé e il mondo. Se riteniamo – come credo sia giusto
pensare – che per Moretti il film altro non debba essere se non una sorta di
autoanalisi, una presa di coscienza attraverso la scrittura, qui Giovanni si
rende finalmente conto che il film che sta girando altro non è se non il
pretesto per mettere in scena la propria
crisi, forse anche politica ma soprattutto esistenziale e artistica. Del tutto
speculare alla decisione di Paola di andare in analisi per riuscire a separarsi
da Giovanni.
19. Successivamente a questo moto di rifiuto del finale, tutta la troupe, compresi i produttori coreani, si ritrova riunita attorno a
un tavolo, in una specie di ricevimento alla ambasciata polacca, ospiti di Jerzy.
In questo contesto, tra l’altro, la figlia di Giovanni annuncia l’intenzione di
sposarsi proprio con Jerzy. Jerzy assume così sempre più la figura del padre maturo. Qui Giovanni dichiara che
il finale del film non gli piace più, di non voler mai più vedere quel cappio.
A questo punto, come se si fossero passati la parola, tra i convitati si
sviluppa una specie di concitato e sonoro brainstorming
cui partecipano tutti appassionatamente (attori, collaboratori, produttori
coreani inclusi,…) il cui risultato sarà un radicale cambiamento di finale.
Giovanni ascolta il
brusio e pensa tra sé qualcosa di abbastanza singolare: «La storia non si fa
con i “se”. E chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i “se”!». Il
suo “se”, come si vedrà, è grosso come una montagna ed è, purtroppo per noi
spettatori, piuttosto difficile da comprendere. Tanto da lasciare, forse, un po’
di amaro in bocca a chi è arrivato fin qui. Comunque val la pena di seguire
fino in fondo la nuova intuizione creativa di Giovanni.
20. Subito parte il nuovo
finale, fatto vedere al pubblico in diretta. I numerosi “compagni” sottoscrittori
della petizione promossa da Vera a favore della rivolta ungherese si ritrovano sotto
la Direzione del PCI (più o meno una storica ricostruzione delle Botteghe
Oscure) e inscenano una grande manifestazione. Tra la folla, violando la logica
temporale della narrazione, si trovano anche Giovanni e Paola, forse finalmente
riconciliati in seguito agli eventi precedenti. Dal basso della piazza s’intravvedono
in alto i dirigenti comunisti, Togliatti in
primis, confabulare dietro le finestre del primo piano. Poco dopo viene
fatto uscire un numero de l’Unità che ha come titolo un clamoroso e
sorprendente: «Unione Sovietica addio!» scritto a caratteri cubitali.
Le prime copie del
giornale con l’addio all’Unione Sovietica sono diffuse e di lì, col supporto
della banda musicale, degli artisti del circo Budavari e degli elefanti, parte
un corteo – in stile da circo equestre sempre decisamente felliniano – che si
dipana per le vie di Roma. Un corteo che figurativamente nelle inquadrature evoca
un po’ il Terzo Stato di Pelizza da
Volpedo. Nella sfilata, Moretti provvede a salvare Ennio (alter ego di
Giovanni) e Vera (alter ego di Paola), i quali si vedono, finalmente,
felicemente abbracciati, non si sa se come personaggi o, più probabilmente,
come attori, visto il loro progressivo innamoramento durante la lavorazione del
film. Sempre Cinema e vita, dunque. I due stanno a cavalcioni di un elefante,
uno dei quattro elefanti del corteo, resi ora disponibili dalla onnipotente
produzione coreana e, anche loro finalmente “familiarizzati”, divenuti cioè
socievoli e disponibili a lavorare insieme. Nel corteo sono compresi anche
Togliatti e i produttori coreani.
Si tratta di un corteo, collocato
ormai al di là dello spazio e del tempo, dove compaiono tutti i protagonisti,
non solo del film di Giovanni ma anche dei diversi altri film di cui si tratta
nel film, cui si aggiungono addirittura anche molti attori e protagonisti di precedenti film di Moretti. Attraverso la
sfilata dei protagonisti dei suoi film precedenti, evidentemente Moretti vuol rivendicare qui il proprio lavoro autoriale,
compreso il suo egocentrismo vagamente staliniano, la sua difficoltà ad
affrontare i sentimenti e le relazioni interpersonali. Rivendica insomma la
causa del Cinema contro la spazzatura mediatica dilagante. Rivendica una sorta
di Cinema totale che si intrecci con la vita. Un intreccio così autentico da
farsi psicoanalisi per chi scrive i copioni e decide i finali. Alla fine della
sarabanda – ed è questa la ancor più sorprendente chiusura del film – compare, inaspettatamente,
un cartello, su sfondo rosso, che recita così: «Da quel giorno il Partito
Comunista Italiano si liberò dell’egemonia sovietica, realizzando in Italia l’utopia
comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, che ancora oggi ci rende tanto
felici».
21. Non possiamo proprio trattenere qui un sonoro gulp! Un finale siffatto è senz’altro da
opera aperta. Spalancata. Ma si
potrebbe anche dire da opera inconclusa.
Che cosa ha voluto dire Moretti? E, soprattutto, ha voluto dire qualcosa? O si
è limitato a menare il can per l’aia riproponendo tutte le sue macchiette più o
meno scontate? In sostanza, come dobbiamo intendere la nuova determinazione di
Giovanni di voler «fare la storia con i “se”»? Se non vogliamo rassegnarci alla
critica postmoderna, si tratta senz’altro di domande più che lecite. Quel tipo
di domande che tra il pubblico ci si poneva quando
si faceva il dibattito, dopo la visione del film.
Intanto va osservato che
«Fare la storia con i “se”» non è di per sé negativo ed è presente, seppure in
tono minore, nella stessa metodologia della scienza storica. Per meglio valutare
l’importanza di certi avvenimenti, gli storici possono talvolta, in mera sede teorica, come esperimento mentale, sopprimere o modificare
un certo evento per vedere quali conseguenze ne sarebbero potute derivare. Si
tratta di meri esercizi teorici che possono tuttavia aiutare a meglio valutare
il peso di determinati eventi nella storia.[16] Di qui purtroppo ha anche preso
piede una certa letteratura minore, di carattere piuttosto popolare, attraverso
la quale sono state proposte varie ipotesi, più o meno strampalate. Non ci pare
proprio tuttavia che questo tipo di esperimenti possa effettivamente essere
stato nelle intenzioni di Moretti.
Mi sentirei di
appoggiare un’altra tesi, anche questa tuttavia di plausibilità relativa.
Moretti potrebbe avere inteso suggerire che stando
ai fatti (cioè stando alla effettiva storia recente) la soluzione tragica,
il suicidio di Ennio (e con lui, si badi bene, della parte preponderante della
sinistra italiana) avrebbe dovuto essere il finale autentico, il finale più
appropriato, quello conseguente all’effettivo andamento delle cose. Si sarebbe
trattato di un film sulla grande tragedia dell’ultimo secolo vista dal
Quarticciolo. Insomma, un dramma politico
e poetico a livello dei Fratelli Taviani. Un drammone effettivamente del
tutto plausibile, un’opera di riflessione senz’altro necessaria ma che Moretti,
implicitamente, dichiara di essere incapace di portare a termine, forse data
anche la caratteristica peculiare del suo linguaggio espressivo. Moretti, in
altri termini, ci fa vedere pezzi di un film che sarebbe necessario fare ma che egli stesso ammette di essere incapace di portare avanti e di concludere
col rigore necessario. La trovata geniale di Moretti resta tuttavia – e credo che
in ciò abbia avuto perfettamente ragione – quella di avere individuato, con una
certa precisione, il nodo, l’evento storico che
ci ha resi quello che siamo, la nostra “giornata particolare”, per dirla
con Aldo Cazzullo. Un nodo tuttora rimosso che la sinistra italiana non ha
ancora compreso, non ha ancora analizzato e superato. E non ha alcuna
intenzione di farlo.
È proprio dalla
rimozione di quella storia – che poi costituisce un caso drammatico di fallimento dell’utopia – che deriva la «fine
di tutto», cioè – come dice la portavoce dei coreani – la morte dell’arte, la
morte dei comunismi, la morte dell’amore e della morale. E naturalmente, la
morte del Cinema. Con la baraonda finale Moretti, di fronte all’incombenza di
concludere degnamente, si sposta repentinamente sul piano fantastico e confessa
implicitamente di essere incapace di procedere alla rielaborazione, incapace di
produrre una psico – analisi dello smarrimento dei tempi nostri e incapace di indurre una decisiva ed efficace presa di
coscienza. In proposito, la citazione calviniana è quanto mai chiara: «Cesare
Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere».
22. Se probabilmente questo è, in maniera del tutto generale, il
senso plausibile della baraonda finale, questo non ci esime dall’entrare nel
merito dei suoi specifici contenuti. Quel che Moretti ci ha messo dentro – a
cominciare dalla scritta finale – non è sicuramente casuale. E con ciò ci
dobbiamo ora confrontare.
Intanto è il caso di
considerare che il «se» di Giovanni si dimostra neppure così tanto radicale. Nel
1956 qualcuno che ha dato l’addio all’Unione sovietica c’è stato davvero.
Abbiamo già citato e riportato in nota lo storico Manifesto dei 101. La repressione della rivolta ungherese causò
effettivamente una spaccatura profonda nella sinistra italiana. Il PSI prese
tuttavia apertamente posizione a favore
degli insorti. Tranne una sua minoranza interna, i cosiddetti “carristi”, i fautori
dei carri armati, che poi, nel 1964 lasceranno il partito e andranno a fondare
lo PSIUP. Anche la CGIL prese posizione a
favore degli operai ungheresi insorti. Non era dunque davvero così
impossibile a quell’epoca condannare l’Unione Sovietica. E molti lo fecero.
Bastava non avere la mente prigioniera
tipica dei comunisti allineati. Ma non è così semplice. Secondo Moretti, quell’addio
avrebbe dovuto comportare non un passaggio nelle file del Blocco occidentale ma
un riavvicinamento all’utopia comunista
tradita. Fino alla sua realizzazione.
Questo è il punto.
In realtà, volendo
ragionare storicamente, “se” Togliatti avesse preso le distanze dall’Unione
Sovietica nel 1956 sarebbe cambiato certo qualcosa, ma forse nulla di
risolutivo. Se fosse riuscito a evitare una scissione estremistica a sinistra,
la Guerra fredda in Italia avrebbe senz’altro avuto un altro corso. Forse ci
saremmo risparmiati gli anni di piombo.
Si sarebbero risparmiate, certo, molte lacerazioni interne, non si sarebbe disperso,
com’è invece avvenuto, buona parte del patrimonio storico del movimento operaio
italiano e, forse, in questo Paese avremmo oggi una migliore cultura civica e
una democrazia più solida. Dubito tuttavia che avremmo realizzato la utopia di
Marx e Engels «che ci rende tanto felici» e che ciò ci avrebbe preservato dalla
«fine di tutto», dai postcomunisti, dai postmoderni, dai film splatter, da Netflix e dalla morte del
Cinema. La nostra crisi culturale attuale è certo frutto anche della crisi della sinistra del 1956, ma a questa non si
riduce affatto.
23. Comunque, se si tratta volonterosamente di «salvare il
soldato Ennio», occorre allora fare un po’ di pulizia anche nella cantina (o
nel solaio, se si vuole) del nostro Moretti. Gli spunti politico ideologici
seminati qua e là nel film, non certo casualmente, non promettono gran che
sulla strada di una maturazione in termini di coscienza. Giovanni (insieme a
Moretti) deve fare ancora un bel po’ di strada. Decisamente problematica per
noi, oltre al cartello finale sulla utopia marx-engelsiana che “ci renderebbe
tanto felici”, è la presenza, in questo corteo, di un gigantesco ritratto di Trotsky,
benevolo e sorridente. Ci dispiace, ma qui non riusciamo proprio a seguire.
Come già non avevamo capito la battuta dell’Acqua
Rosa, sulla Luxemburg. All’inizio
del film, nell’allestimento del set della sezione, per Giovanni non andava bene
l’immagine di Stalin, tanto da determinare il famoso “strappo”, ma Lenin, certo
non meno responsabile di Stalin nelle vicende del comunismo sovietico, era
stato lasciato in bella mostra. Non possiamo poi neanche asserire che “se”
avesse prevalso Trotsky le cose sarebbero andate diversamente. Trotsky non era
certo migliore degli altri due, semplicemente è stato lo sconfitto dalle lotte
interne. Forse perché era un po’ meno analfabeta dei suoi concorrenti. Oltretutto
è stato uno dei principali perpetratori del massacro
di Kronstadt del 1921. Forse per Moretti – come ancora per tanti “compagni”
incanutiti – far fuori gli anarchici era allora il prezzo da pagare per salvare
la rivoluzione. Le battute sul «pasticcere trotskista» in un precedente film di
Moretti e la riproposizione in questo corteo finale della figura di Trotsky a
mo’ di tormentone, lasciano molte domande aperte, soprattutto sulla cultura
storica e filosofica di base del nostro Moretti.
L’idea di fondo, sottesa
a tutto ciò, è che l’ideologia comunista (o se si vuole, l’utopia comunista)
fosse originariamente una cosa buona e
giusta e che sia poi naufragata per una sorta di fortuita deviazione costituita da Stalin e dalla Unione Sovietica
staliniana. Si tratta di un’idea piuttosto ingenua e superficiale. Se c’è una
cosa ampiamente provata dalla storia del XX secolo è la totale inemendabilità della ideologia
comunista. Certo, nessuno è perfetto. Rispettiamo profondamente l’Autore
Moretti, anche se manteniamo enormi riserve sul politico Moretti. Chi si
aspettava da Moretti – visto anche il titolo del film – una qualche intrigante riflessione
sulla crisi della sinistra odierna è stato sistemato. Nel campo della
militanza, il suo massimo Moretti lo ha dato con «D’Alema, dì qualcosa di
sinistra!» e «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».[17] Non è compito del
Cinema risolvere i problemi che la politica non è in grado di affrontare.
24. Se l’abbozzo di riflessione critica sulla sinistra italiana
condotta da Moretti a partire dalla crisi del 1956 è decisamente insufficiente,
non altrettanto lo è – nostro modesto avviso – l’analisi e la riflessione
critica sui destini del Cinema o, come abbiamo detto, sulla morte del Cinema. Purtroppo,
anche nel campo del Cinema, nonostante gli apprezzabilissimi spezzoni di
lucidità che abbiamo segnalato, la presa di coscienza della situazione attuale non offre alcuno sprazzo di ottimismo. Anche
qui Moretti ci suggerisce che oggi il suicidio dell’Autore sarebbe in realtà la
giusta soluzione, forse del tutto inevitabile. Nello stesso tempo rifiuta quasi
istintivamente il cappio, per una specie di istinto di sopravvivenza. O forse
per proporre un invito alla Resistenza.
Un invito forse fin troppo prevedibile e rituale, ma ci sta bene. L’autoanalisi
totale di Giovanni attraverso il film, dopo essere passata per l’ipotesi drammatica
del suicidio, si è compiuta infine con una fuga fantastica, una specie di
evasione dalla storia, dal tempo, dando luogo alla costruzione di una comunità immaginata che può essere
identificata con la comunità di coloro che credono ancora al cinema autoriale, nonostante Netflix.
Non più la «fine di tutto», la fine dell’arte, come stava scritto nel copione
originario, ma l’alba fantastica del mondo nuovo, politico e cinematografico
insieme. Tra l’altro è qui suggerita implicitamente l’amara consapevolezza che
senza la politica non c’è la cultura e viceversa. Quello che Moretti offre al
suo pubblico è tuttavia un finale “politico culturale” destinato a rimanere nell’ambito
consolatorio. Il suo corteo non va da
nessuna parte e si chiude con quell’ambigua scritta finale che contiene in sé
un elemento utopico insieme alla sua stessa delegittimazione.
Moretti conosce bene il
suo pubblico e sa che esso è comunque disponibile alla critica ironica nei
confronti della realtà, al distanziamento, magari alla fuga nell’utopia. Ma
anche un pubblico capace di comprendere le debolezze individuali, i fallimenti,
le rimozioni. Un pubblico poi che, sul piano morale, ha dietro le spalle una
lunga storia di disillusioni e sembra costitutivamente destinato a guadagnare
una sconfitta dopo l’altra. Un pubblico che apprezza un mondo politico e poetico, dove tuttavia può anche
incombere il suicidio del protagonista. Un finale per il suo pubblico, dunque.
Un finale comunque senz’altro non suscettibile di essere «diffuso in 190 Paesi»,
come richiesto dai rappresentanti di Netflix. Forse oggi non sarebbe neanche
suscettibile di essere diffuso al Quarticciolo.
25. Non nascondiamocelo. Questo finale, comunque lo si rigiri, per
quanto fantasioso e accattivante, sembra per lo meno insufficiente. Non all’altezza.
L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi, per sollevare appena un po’ il
generoso Moretti da questa débâcle, è
la seguente. Si badi bene, non è certo che questa spiegazione sia stata mai effettivamente
nelle intenzioni di Moretti, ma senz’altro, a mio modesto avviso, emerge con
qualche plausibilità dal testo del suo film. La propongo qui nello spirito del dibattito.
Torniamo a Giovanni, che
con ogni probabilità rischia ancora di essere la chiave di tutto. Vediamo in
generale come si comporta, come lavora. È immaturo, pasticcione, capriccioso,
irresoluto. Nella vita privata è un padre assente e un partner pesante e problematico. È superstizioso. A ogni nuovo film
deve fare il rito di guardare Lola
con tutta la famiglia; nei momenti di difficoltà invoca la mamma, dichiara di
prendere gli antidepressivi. Sul lavoro è terribilmente inefficiente, visto che
fa un film ogni cinque anni. Il film che Giovanni gira ostentatamente sotto i
nostri occhi è un’opera erratica, indecisa,
dall’incerta collocazione tra i generi, soggetta a mille condizionamenti, dalla
vita privata dell’Autore ai diktat
dei conti economici. Un’opera perfino indecisa riguardo al finale e al suo
significato generale. Dalla figura di Giovanni, così com’è delineata, e dal suo
film, così come viene mostrato nel suo farsi e nella sua inconclusione, sembra
emergere l’intenzione di un vero e proprio elogio
della imperfezione. Un’imperfezione che per Moretti è senz’altro ineluttabile,
tipica della vita, delle relazioni interpersonali, degli Autori, dei
produttori. Ma anche della politica e della grande storia.
Netflix (qui pars pro toto), a rovescio, non ha il
retroterra umano troppo umano dell’Autore
solitario, del free rider. Non
subisce il peso dei condizionamenti più disparati. Non ha bisogno della
psicoanalisi. È una macchina del consenso che produce e distribuisce merce «in
190 Paesi». È uno standard cui ci si deve adeguare per stare dentro al
meccanismo produttivo e distributivo. Gli autori di Netflix calcolano minuto
per minuto quale meccanismo narrativo sia preferibile per acchiappare e accontentare
il pubblico. È possibilissimo poi che, di questo passo, gli autori di Netflix
possano perfino essere sostituiti dall’intelligenza
artificiale. Sicuramente una AI potrebbe produrre storie tecnicamente più
efficaci di qualsiasi Autore o collettivo di autori. Perché la AI rappresenta
il collettivo autoriale assoluto,
quello che emerge automaticamente dal
Testo universale.
Secondo Moretti invece –
e questo discorso a nostro parere emerge dal suo testo – l’Autore solitario, il
free rider potrà avere anche mille
difetti, potrà anche essere enormemente imperfetto, ma sarà sempre meglio di
Netflix, semplicemente perché è espressione della vita: «Nella vita, due o tre
valori bisogna pure averceli, no?». Gli intellettuali del 1956 avevano di
fronte la macchina comunista in tutte le sue manifestazioni locali e mondiali.
Gli intellettuali di oggi hanno di fronte una macchina ben più temibile. Di
fronte alla «fine di tutto quanto» l’unica speranza di reagire, di restare
umani, è quella di fare un ricorso
intelligente alla nostra imperfezione. E di imperfezione intelligente Moretti
certo se ne intende.
Giuseppe Rinaldi
21/09/2023
(rivisto il 15/01/2024)
OPERE
CITATE
1981 Aristarco, Guido, Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta, Dedalo, Bari.
1990 Eco, Umberto, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano.
NOTE
[1] Questo saggio è stato originariamente
pubblicato su Città Futura on-line.
Questa è una nuova versione (1.1), rivista il 15/01/2024, in occasione della
pubblicazione sul sito de I viandanti
delle nebbie. Ringrazio vivamente il Sito dei Viandanti per l’attenzione e
la condivisione. Ho cominciato a scrivere questo piccolo saggio l’08/09/2023,
tanto per collocarlo rispetto alle uscite dei commenti e delle analisi altrui.
[2] Chiedo scusa se per caso mi fosse sfuggita
qualche importante controversia critica. Non mi capita più tanto di leggere la
critica cinematografica.
[3] L’espressione critica postmoderna è ovviamente una contraddizione in termini.
[4] Di opera
aperta ha parlato Umberto Eco. Il quale era tuttavia ben consapevole dei
pericoli connessi alla pretesa di un’interpretazione
infinita. Cfr. Eco 1990.
[5] Sento qui ruggire i ritualisti
fondamentalisti antispoiler.
[6] Giovanni, che fa un film ogni cinque anni,
in occasione della partenza delle riprese del nuovo film vuole imporre a tutta
la famiglia il rituale della visione di Lola,
con tanto di poncho da Ecce Bombo, gelato e quant’altro. Ma rimane ben presto
da solo. Mormora tra sé: «Questo film andrà male, lo sento!».
[7] Giovanni compare come una specie di Cupido
che incita Lui a baciare Lei mentre sono al cinema. I due però poi si lasciano,
sorprendentemente dopo una dettagliata spiegazione da parte di Lei, di fronte a
un Lui che palesemente è inadeguato e non sa cosa dire (anzi, lo stesso
Giovanni gli ingiunge di non dire niente).
È tuttavia l’unica parte del film dove – almeno da parte di Lei – le relazioni
di coppia sono esaminate e spiegate con una certa cura e con una certa
articolazione nell’analisi dei sentimenti.
[8] Qui abbiamo una prima violenza alla storia.
Cosa c’entri la Luxemburg con il PCI del 1956 è davvero difficile da capire.
Farà il paio con la citazione di Trotsky che comparirà alla fine del film.
[9] Questa faccenda non è occasionale e/o
pretestuosa come potrebbe sembrare, poiché la scrittura collettiva è proprio la
tecnica che usano i grandi network
del Cinema per produrre i loro contenuti. Cioè proprio il tipo di cinema contro
cui polemizza Moretti. È il tipo di scrittura che sta demolendo la figura
stessa dell’Autore. Qui Moretti non dice, ma sicuramente accenna.
[10] Forse è il caso di riportare, per chi non
lo conosca, il testo di quel Manifesto
dei 101, che è piuttosto breve ma assai significativo: «Ai compagni del
Partito Comunista Italiano. Ai lavoratori italiani. Agli uomini di buona
volontà. La rivolta del popolo ungherese contro il regime staliniano ha
suscitato nel mondo intero un’ondata di simpatia e di solidarietà. Noi,
intellettuali comunisti italiani, sentiamo il dovere di esprimere la nostra
ferma approvazione a questa rivolta, che è stata una manifestazione di coraggio
e di libertà da parte di un popolo che ha lottato per la propria indipendenza e
per il socialismo. L’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche è
un atto di violenza e di sopraffazione che non può essere giustificato. Esso è
un tradimento dei principi del socialismo e della solidarietà internazionale.
Noi denunciamo questa aggressione e ci dissociamo dalla linea del Partito
Comunista Italiano, che ha accettato passivamente l’invasione dell’Ungheria.
Crediamo che la via del socialismo passa attraverso la democrazia e la
partecipazione delle masse alla vita politica e sociale. Noi ci impegniamo a
continuare a lottare per la costruzione di un socialismo autenticamente
democratico e progressista. Roma, 29 ottobre 1956». Seguono le firme dei
sottoscrittori. È stata lievemente modificata la spaziatura e la punteggiatura,
per ragioni di spazio.
[11] La scena si trova in Io e Annie (1977).
[12] Moretti avrebbe potuto anche trattare della
storia del cinema a livello internazionale, nel periodo della Guerra Fredda. Ma
non ce la fa. E ha fatto bene a limitarsi al cinema italiano.
[13] Si veda – per chi fosse interessato – la
ricostruzione documentata di quel lontano dibattito in Aristarco 1981.
[14] Il “giuramento” cui si allude nel titolo
non è in realtà il giuramento di fede comunista, bensì il titolo di un film
stalinista osannato dalla critica filosovietica dell’epoca. Ovviamente, c’era
un gioco di parole voluto.
[15] In effetti, il Cinema coreano ha
recentemente portato alla ribalta alcuni notevoli Autori.
[16] Max Weber in proposito aveva suggerito il
metodo delle “possibilità retrospettive” (o, detto anche della “possibilità
oggettiva”). Funziona più o meno così: si tende a constatare se, escludendo o
mutando una delle condizioni antecedenti, il corso degli eventi, in base alle
regole generali dell’esperienza, avrebbe potuto assumere una direzione diversa.
[17] La prima frase si trova nel film Aprile del 1998. La seconda, collocata
nel contesto del Movimento dei girotondi,
è del 2 febbraio 2002.