1. 
La chiave interpretativa dell’ultimo film di Polanski si può trovare tutta nei 
primissimi minuti di proiezione. Siamo nella celebre École 
militaire di Parigi. La macchina da presa si muove lentamente in una 
sconfinata piazza d’armi deserta, circondata da una serie continua di 
costruzioni settecentesche. All’improvviso sbuca un piccolo drappello di soldati 
che marcia lentamente verso un obiettivo imprecisato. La macchina li segue con 
una lunga carrellata e intanto lentamente si avvicina. Così, poco a poco, quello 
che sembrava una specie di elemento architettonico lungo la base dei palazzi 
disposti intorno alla piazza d’armi, si rivela essere una fitta schiera di 
soldati immobili. Una moltitudine immensa di uomini che un momento prima 
risultava del tutto invisibile. Si scopre a questo punto che il piccolo
 drappello stava marciando, davanti a un intero esercito schierato, verso 
l’ufficiale Dreyfus, fermo in piedi in mezzo alla piazza, in attesa della 
degradazione. Sembra con ciò suggerire Polanski, in termini meramente visivi, 
che la realtà non è mai come 
sembra.
Inizia così una lunga e intrigante riflessione sulla verità e sulla menzogna, 
che ha come sfondo, proprio soltanto come sfondo, la storia dell’affare Dreyfus. 
Va segnalato, in proposito, che la sceneggiatura del film è stata condivisa da 
Polanski con Robert Harris, autore del libro An
 Officier and a Spy da cui è tratto il film. Data la stretta collaborazione
 tra i due, non staremo a fare distinzioni di sorta. Oltretutto Harris aveva già
 collaborato con Polanski nella sceneggiatura di The 
Ghostwriter (L’uomo nell’ombra
 del 2010). Anche in quel film si affrontavano problemi del tutto analoghi,
 relativi alla scrittura e al testo come veicoli di verità o di 
menzogna.
2. 
Di questo film s’è detto molto ma purtroppo in maniera piuttosto superficiale, 
il tutto mescolato con l’ulteriore condimento delle vicende giudiziarie 
personali di Polanski. Com’è noto, a Parigi, la prima del film è stata impedita 
da una manifestazione d’ispirazione me-too. Tutto ciò ha suscitato molte e 
contradditorie aspettative. C’è chi ha denigrato Polanski e il suo film, chi 
invece l’ha apprezzato come un grande capolavoro. Il film comunque ha ricevuto 
il Gran premio della giuria a 
Venezia 2019. In tutto questo bailamme, facciamo prima a dire quello che, 
secondo noi, non è, questo nuovo 
film di Polanski. Proveremo poi a pronunciarci su quel che secondo noi 
effettivamente è, o che forse avrebbe voluto essere. La qual cosa – come si 
vedrà - si rivelerà un pochino più complessa. Dunque, non è propriamente un film 
storico sull’affare Dreyfus. Non è un film sull’antisemitismo. Non è un film sul 
ruolo degli intellettuali e dell’opinione pubblica nel Novecento. Non è neppure 
un film sulle istituzioni e sul potere. È piuttosto, anticipando la soluzione 
del rebus, come già accennato, un film sulla verità come testo e scrittura, e 
sulla costruzione e decostruzione della verità stessa. Tutti gli elementi 
poc’anzi citati, che sono stati variamente invocati dalla critica, c’entrano 
senz’altro, danno il corpo al film, ma il nucleo autentico del film è solo e 
soltanto la tesi per cui niente è come 
sembra. Tutto è testo, tutto è scrittura e, conseguentemente, il costrutto 
testuale determina l’esistenza. Le istituzioni e le società sono espressioni 
del testo, al servizio del testo. Solo 
un’interpretazione ci salverà, per parafrasare un celebre filosofo che, in 
realtà, ci è davvero poco simpatico.
3. 
Ma vediamo meglio le singole questioni. Perché un film possa effettivamente 
essere detto film storico non basta 
che sia ambientato in un periodo storico diverso dal presente. Non basta, per 
fare un film storico, che si vedano i romani antichi con lo scudo e la corazza, 
non basta che si vedano i nazisti scorrazzare sulle motocarrozzette, oppure 
mettere in scena Churchill o Abramo Lincoln. Non basta cioè che ci sia un’ambientazione storica. Un film 
storico in senso proprio è un film che è in grado di proporre 
un’interpretazione di un qualche episodio della storia. La parola da rilevare 
qui è interpretazione, cioè ermeneutica. La storia è tale se
 conferisce una struttura di senso a
 qualcosa che prima non l’aveva, o non l’aveva del tutto. Insomma, da un lato
 abbiamo i fatti bruti (raw data)
 della cronaca, dall’altro abbiamo gli eventi dotati di senso. In mezzo c’è la 
storiografia. Il film storico – usando le prerogative proprie del cinema – deve 
essere in grado di produrre un qualche nuovo senso interpretativo che prima non 
c’era. Altrimenti rimane solo una piatta esposizione di raw 
data, informazioni che possono riguardare epoche diverse dalla presente ma 
che rimangono comunque senza senso, oppure che rimangono dotate del senso 
elementare che hanno i dati bruti. Nel film di Polanski, il fatto storico del 
caso Dreyfus è semplicemente esposto, illustrato, rappresentato, peraltro in 
maniera davvero eccezionale sul piano della ricostruzione e degli aspetti 
visivi. Viene tuttavia meramente riproposto quel che se ne sa già ampiamente per 
altre fonti. Insomma, come abbiamo suggerito, il caso storico dell’affare 
Dreyfus viene certo usato da Polanski/Harris, ma per un altro 
scopo.
4. 
Lo stesso ragionamento lo possiamo fare per l’antisemitismo. Non è 
l’antisemitismo il fulcro del film. Si badi bene che l’antisemitismo nel film 
c’è, è presente dappertutto. Ma è proprio questo il problema. Il film mostra 
come l’antisemitismo faccia parte del paesaggio sociale della Francia fin 
de siècle. È un atteggiamento condiviso e dato per scontato più o meno da 
tutti. È come l’aria che si respira. I personaggi del film sono quasi tutti 
portatori insani di antisemitismo. L’antisemitismo è parte dell’ambiente, è dato 
per scontato. Ciò nonostante, nel film non c’è alcuna approfondita 
interpretazione del fenomeno dell’antisemitismo. Esso viene semplicemente 
mostrato, pur nelle sue gravi e inaccettabili conseguenze ma, appunto, viene 
solo mostrato. Polanski non ha voluto fare un film 
storico sull’antisemitismo, anche perché un simile film lo aveva già fatto, 
con davvero egregi e straordinari risultati. Non è che Polanski non sia capace 
di fare un film storico sull’antisemitismo. Solo che in questo frangente non era 
il discorso principale che gli interessava.
5. 
Non è neppure un film incentrato sulla nascita dell’opinione 
pubblica e sul nuovo ruolo degli 
intellettuali. Questo va detto, nonostante il titolo originale francese del 
film riprenda proprio il motto di Zola “J’accuse!”. Zola, nel film, non ha 
alcuna presenza rilevante. È mostrato molto di corsa, più o meno come un potente 
lobbista dell’opposizione. Le ragioni profonde dell’engagement
 di Zola non sono neppure accennate, sono date per scontate. Insomma, Zola c’è
 ma non si vede, fa parte dell’arredamento. L’esercito e il governo sono la
 macchina che costruisce la menzogna, Zola e l’opposizione sono la macchina che
 decostruisce la menzogna, facendo appello all’opinione pubblica e usando la
 stampa libera. Tutto ciò è puntualmente descritto. Come e perché sia stato
 possibile quel tipo di impegno e come e perché riescano a farcela non è
 minimamente spiegato. Polanski non è interessato a entrare nel merito e ad 
analizzare il nuovo ruolo 
dell’intellettuale che si prospetta in seguito al caso Dreyfus e il nuovo rapporto che viene a instaurarsi tra 
stampa, opinione pubblica, pluralismo e democrazia. La battaglia 
dell’opposizione è mostrata, ma le 
motivazioni profonde, quelle che avrebbero effettivamente permesso un’interpretazione 
storica, restano del tutto sullo sfondo.
Anche per quanto riguarda le istituzioni, le cose non 
vanno molto diversamente. Seppure la struttura autoritaria dell’esercito 
francese come istituzione sia dettagliata in maniera rigorosa e venga 
ricostruita in tutti i suoi odiosi particolari, essa non 
viene spiegata. Ci vien detto che le cose funzionavano così, ma non 
il perché.
6. 
La ragione di tutto ciò è che a Polanski (e al co-sceneggiatore Harris) del caso 
Dreyfus interessa una cosa soltanto: il complesso dei meccanismi di costruzione 
e decostruzione della verità. E questi meccanismi sono senz’altro universali
 da che mondo è mondo, per cui il caso Dreyfus non può essere che solo un
 esempio. Una specie di caso sperimentale. Un esempio certo paradigmatico, ma solo un esempio. Dreyfus come
 personaggio lo si vede solo all’inizio del film e poi alla fine, con qualche
 intermezzo ricostruttivo delle sue vicende processuali, quando la narrazione lo
 richiede. Il vero protagonista del film di Polanski non è Dreyfus - cioè 
l’ebreo perseguitato, la vittima dell’antisemitismo - ma il colonnello Piquart, 
quello che riveste il ruolo dell’investigatore. All’inizio Piquart 
sembra uno sprovveduto, uno dei tanti che aveva avuto un ruolo marginale nell’affaire. Uno che aveva creduto 
esattamente quello che avevano creduto, più o meno in buona fede, proprio tutti. 
Tanto che viene promosso a comandare l’ufficio investigativo, un ufficio così 
segreto da essere designato eufemisticamente come Ufficio Statistica. Tuttavia, 
poco a poco la sua figura s’irrobustisce e si consolida, fino a guadagnare un 
posto centrale e determinante nella vicenda. Il modello umano che si concretizza 
progressivamente sotto gli occhi dello spettatore è quello di uno Sherlock 
Holmes che ha, come unico suo scopo, la soluzione di un puzzle 
investigativo e quindi la decostruzione delle prove addotte a carico di 
Dreyfus, lo smascheramento dei depistaggi e la scoperta della sua innocenza. Non 
Zola e l’opinione pubblica sono i motori della vicenda, bensì la pervicacia 
investigativa di una specie di Holmes al di qua della Manica. Del resto, le 
avventure di Holmes nella fiction di 
Conan Doyle sono del tutto contemporanee alle ben più effettuali indagini di 
Piquart.
7. 
La prova più lampante di quanto andiamo sostenendo è che quasi due terzi del 
film è impegnato nella ricostruzione e nella esibizione, invero davvero
 straordinaria, puntuale e documentatissima, delle tecniche investigative del
 tempo. Nell’esibizione delle carte, dei dossier e degli archivi. E nel ricorso
 alle varie nuove professionalità connesse alle indagini, come il grafologo, il
 fotografo, ecc. Il film di Polanski è sostanzialmente un film sulle tecniche
 investigative fin de siècle. Una
 specie di ricerca sull’essenza stessa delle tecniche investigative e sulla
 figura stessa dell’investigatore,
 colui che è in grado di vedere ciò che gli altri non vedono. Colui che è in
 grado di rivolgere la propria attenzione ai margini
 del testo, ai margini, si badi bene, del quadretto incorniciato 
nell’ufficio di Piquart, dove ci sono i frammenti della falsa prova che ha 
incastrato Dreyfus. 
Piquart, in seguito alla sua promozione, prende 
possesso del suo ufficio e dei suoi poteri, fino a quando non comincia a 
sospettare che qualcosa non torna. Invece di girarsi dall’altra parte, di 
accomodarsi alla comune opinione, si accinge semplicemente a 
seguire le tracce, come un novello Guglielmo da Baskerville. Le tracce, se 
si vogliono seguire, ci sono sempre e in abbondanza. Non 
possiamo non lasciare tracce – dice Ferraris, sulle orme di Derrida. E le 
tracce lo conducono a scoprire le prove dell’innocenza di Dreyfus e, invece, 
della colpevolezza del colonnello Esterhazy. Una volta trovate le prove, si 
tratta tuttavia di fare i conti con il sistema di potere che ha fabbricato e 
sostenuto la menzogna. E di qui, tutti gli avvenimenti successivi, i depistaggi, 
l’allontanamento di Piquart, le campagne di stampa e i ricorsi degli avvocati 
dell’opposizione. Si tratta di fatti conseguenti che tuttavia sono raccontati da 
Polanski quasi frettolosamente. Le reazioni del potere, dei fabbricanti della 
verità ufficiale, sono quelle che tutti ci aspettiamo, ampiamente prevedibili e 
quindi in fin dei conti poco interessanti.
8. 
Ciò che interessa veramente a Polanski dunque è il processo dell’indagine. Si 
tratta dunque di un caso Dreyfus che vien trattato sotto il profilo di una spy story. Una spy 
story di altissimo livello, ma pur sempre una spy 
story. Attraverso questa riduzione, forse un po’ naïve
 e spregiudicata, Polanski riesce però a enunciare e a sostenere alcuni principi
 di carattere generale, non del tutto nuovi, ma che non fa mai male ribadire, e
 di cui forse ai tempi nostri c’è estrema necessità. Non 
c’è verità senza testo. La condanna di Dreyfus, a torto o a ragione, si è 
basata sulle carte. I testi possono dire 
la verità, ma possono anche essere usati per mentire. 
L’uso veridico o menzognero dei testi dipende dai rapporti 
di potere e, soprattutto, dalle istituzioni di potere che hanno il 
controllo della produzione testuale. 
La produzione dei testi, e il loro uso, in ogni epoca storica (dunque anche 
nella Francia di fine Ottocento) obbedisce a quelli che sono i 
pregiudizi diffusi nelle società dei tempi. Tuttavia, ogni produzione 
testuale, sia essa veridica o menzognera, non può che lasciare essa stessa delle 
tracce. Immersi nella testualità, 
poiché le nostre vite e le nostre istituzioni sono fatte in gran parte di testi, 
non possiamo non lasciar traccia. 
Così, grazie alle tracce, grazie ai margini del testo, accanto alle vicende 
della costruzione della menzogna si configura la possibilità di una sua decostruzione. Piquart è uno Sherlock 
Holmes decostruzionista alle prese con i margini di un testo. Un vero e proprio 
Guglielmo da Baskerville che usa consapevolmente il metodo 
Morelli, che si serve cioè di minime 
tracce per ricostruire il senso del 
testo manifesto. Una strategia minimalista per determinare l’autenticità o 
la falsità dell’opera. Su tutti questi argomenti c’è una letteratura enorme, che 
tuttavia qui risparmiamo volentieri al 
lettore.
9. 
Il discorso centrale del film dunque, dietro al fulgore della Francia fin 
de siècle, dietro alla mirabile ricostruzione degli ambienti, dei costumi 
dell’epoca, risulta essere un teorema quanto mai intellettualistico e astratto: 
una riflessione sulla testualità e sulla scrittura e sulle loro conseguenze 
sociali. In contrasto con questa tendenza di fondo, il film viene ricondotto a 
una dimensione esistenziale, in prima persona, da un unico personaggio, l’amante 
o la fidanzata di Piquart. Si noti che è l’unica donna che compare nel film. 
Forse andrebbe anche notato che il personaggio è interpretato dalla stessa 
compagna di Polanski, Emanuelle Seigner. La ricerca della verità 
dell’investigatore Piquart ha come risultato, in un primo tempo, la distruzione 
della vita privata della donna e, successivamente, la sua ricostruzione al suo 
stesso fianco, anche se alla fine, tenendosi fuori dalle convenzioni, i due 
decidono di non sposarsi. Il lavoro sul testo, l’investigazione, dunque – sembra 
dire Polanski - non riesce mai, per quanto ciò sia necessario, a essere un 
esercizio freddo del puro logos, ma 
ha sempre profonde conseguenze esistenziali. Testo 
ed esistenza sono due estremi che 
pur nella loro eterogeneità finiscono per intrecciarsi continuamente. Solo alla 
fine, discutendo con la sua compagna, Piquart sembra così smettere le fredde 
vesti dell’interprete mind oriented 
e sembra diventare più propriamente umano. Ma ritorna subito il Piquart 
arido interprete della verità nell’incontro faccia a faccia – che chiude il film 
– con Dreyfus, un incontro del tutto freddo e privo di empatia. Se testo ed 
esistenza s’intrecciano continuamente, è il caso tuttavia di tenerli ben 
distinti, onde evitare condizionamenti 
impropri.
10. 
Il film, che è incentrato, come s’è detto, sulla questione dell’interpretazione, 
pone dunque consapevolmente il problema di un’etica 
dell’interpretazione (diciamo pure, in senso habermasiano). In un mondo come 
il nostro in cui la testualità si è moltiplicata in modo vertiginoso, in cui 
tutto viene preso pacchianamente per buono, in cui si trovano sempre schiere di 
imbecilli creduli, Polanski e Harris, attraverso il caso Dreyfus, ci ricordano 
che non tutto è come sembra. Che 
quel che ci sembra ovvio è sempre il risultato di un’attività di costruzione, di 
scrittura da parte di chi ha il potere di farlo e se ne arroga il diritto. O 
anche solo da parte dell’opinione 
prevalente e/o del pregiudizio 
prevalente di un’epoca. Per un principio etico indispensabile alla 
sopravvivenza della nostra cultura e della nostra società, allora, non perché 
siamo onesti, buoni, umani o altruisti, dobbiamo prestare sempre la massima 
attenzione ai meccanismi della produzione testuale, dobbiamo guardare oltre il 
testo manifesto, oltre il testo 
incorniciato - come fa effettivamente il bravo Piquart - dobbiamo guardare 
ai margini del testo, al mondo del non ancora detto o al mondo che per qualche 
motivo è stato costretto al silenzio, e recuperare quel 
che non sembra ovvio, quello che ci viene costantemente oscurato e negato 
dal mare della testualità stessa nel quale siamo costantemente immersi e in cui
 rischiamo costantemente di annegare.
Giuseppe 
Rinaldi
23/11/2019

