1. Le recenti elezioni[1] americane del 5 novembre 2024 – che
hanno determinato la vittoria del repubblicano Donald Trump sulla concorrente
democratica Kamala Harris – meritano qualche riflessione, poiché costituiscono
senz’altro un evento rivelatore, non soltanto della situazione politico sociale
degli USA ma anche delle prospettive della democrazia in Occidente e nel resto
del mondo. Si tratta dunque di un evento che ci riguarda da vicino, ben più di
quanto non sembri.
2. Personalmente, ammetto di avere sbagliato le previsioni.
Sapevo bene come Trump fosse un candidato forte e pericoloso. Sapevo anche bene
come la Harris fosse un candidato piuttosto debole, sia per la prestazione
scarsa svolta come vice presidente, sia per l’avventurosa e sciagurata scelta
dei Democratici di candidare prima Biden e poi di cambiare il candidato in
corsa. La Harris non ha così avuto la possibilità di sfruttare il lungo
processo delle primarie per farsi conoscere dagli elettori e mettere a punto il
suo programma.
Tuttavia mi aspettavo,
da parte degli elettori americani, una qualche reazione nei confronti di Trump,
peraltro già visto all’opera, sempre più impresentabile, con la sua sfilza di
denunce e condanne, con la questione giudiziaria pendente per l’assalto al
Campidoglio da parte dei suoi seguaci. E con il suo atteggiamento nei confronti
delle donne, con le sue spacconate da showman.
Perciò mi aspettavo una vittoria di stretta misura da parte della Harris. Una
vittoria che avrebbe potuto derivare da una specie di fronte di resistenza
civile della parte migliore del Paese contro un candidato manifestamente
pericoloso per i fondamenti stessi della democrazia americana. Mi aspettavo
perciò anche un passaggio di consegne travagliato e lunghe contestazioni,
magari su poche migliaia di voti. In altri termini, pensavo che il Paese dalla
democrazia più vecchia del mondo avrebbe alla fine mostrato un residuo minimo
di cultura civica democratica e sarebbe stato capace di reagire contro una
minaccia così grave. Mi sbagliavo.
La vittoria di Trump è
invece risultata netta e inequivocabile, non solo nella conquista dei delegati
ma anche nel voto popolare. Trump ha
ora in mano il Paese, avendo la Presidenza, avendo la maggioranza delle due
Camere, avendo la Corte dalla sua parte. Avendo dalla sua oltretutto uno spoils system che produrrà un ricambio
totale dei piani alti dell’Amministrazione. A questo quadro va aggiunta la
presenza inquietante di Elon Musk, cui a quanto pare sarà conferito il compito
di “alleggerire” lo Stato. Ci dobbiamo rassegnare: dell’America di Roosevelt
non c’è neppure più l’ombra.
3. Certo, è stato da più parti sottolineato come gli avversari
di Trump, i Democratici, guidati da una ristretta oligarchia di personaggi del
tutto privi ormai di visione e di programmi, abbiano compiuto una serie
incredibile di errori, consapevoli o meno che ne fossero. I Democratici avevano
addirittura visto di buon occhio la candidatura di Trump nel campo
repubblicano, con la convinzione di poterlo battere facilmente. Tuttavia,
invocare come spiegazione della sconfitta le colpe dei Democratici sarebbe
estremamente riduttivo. Al di là degli errori e delle carenze dei Democrats, evidentemente il sistema
politico americano, nel suo complesso, non possiede più, al proprio interno,
alcun antidoto efficace nei confronti delle tendenze
anti-democratiche. I Repubblicani, dal canto loro, come partito tradizionale
sono spariti, fagocitati dal movimento di Trump, il MAGA, (Make America Great Again!).
4. La cosa più preoccupante è che qui non siamo soltanto di
fronte al caso americano. Non siamo soltanto di fronte ai limiti del sistema
americano. Siamo evidentemente di fronte a un limite stesso dei sistemi
democratici attuali, per lo meno in Occidente, che hanno mostrato di essere incapaci
di reagire adeguatamente quando messi di fronte allo stile maturo del nuovo
populismo. Il problema non è nuovo. Nel nostro Paese abbiamo ampiamente
sperimentato il berlusconismo che
aveva molti punti in comune con il Trump odierno e che addirittura, per molti
aspetti, ha rappresentato una perfetta anticipazione del trumpismo. Dobbiamo
costatare ormai che, in Occidente, le forme
degenerate di democrazia (cui sono applicati nomi spesso fantasiosi, come
democrazie autoritarie, democrature, sovranismi, democrazie del leader) sono sempre più diffuse, seppure
con numerose varianti. E che si relazionano sempre più strettamente con le numerose
altre democrazie border line ormai presenti
in ogni angolo del Pianeta. Con queste ultime elezioni americane, la linea di
tendenza è divenuta chiara.
5. Se guardiamo questi esperimenti antidemocratici solo dal
punto di vista del leader, dobbiamo
rassegnarci a caratterizzarli col nome stesso dei leader, poiché ciascuno
possiede caratteristiche proprie: trumpismo, berlusconismo, orbanismo,
putinismo, erdoganismo, melonismo, mileismo (dall’argentino Javier Milei),
bolsonarismo e così via. Possiamo metterci anche il lepenismo che non ha ancora
governato in Francia ma che, probabilmente, vedremo all’opera ben presto.
Ognuno ha il suo stile. Ognuno la sua storia. Ognuno i suoi caratteri
idiosincratici. Ciò impedisce all’osservatore di identificare eventualmente i
loro tratti comuni e impedisce di
cogliere la questione di fondo: come è possibile che costoro siano
democraticamente eletti, in un quadro di democrazia
formale e poi, nella loro azione di governo, si esibiscano in provvedimenti
anti istituzionali e anti democratici. Detto in altri termini, com’è possibile
che le democrazie, invece di progredire e di maturare emendando i propri
difetti, tendano oggi a scadere in circoli viziosi che danneggiano e
indeboliscono sempre più le democrazie stesse. Spesso questi leader, nonostante il loro pessimo rendimento politico, sono
felicemente rieletti, proprio com’è accaduto nel caso di Trump, di Berlusconi
di Orban e di altri ancora.
6. Si tratta allora di cambiare il punto di vista. Si tratta
di domandarsi com’è possibile che i cittadini elettori, in società ove sia
presente un livello accettabile di democrazia formale, finiscano per eleggere,
talvolta con maggioranze notevoli, dei personaggi che si atteggiano a leader popolari ma che nel contempo
operano per distruggere le stesse fondamenta della democrazia. Il sospetto
ormai è che non si tratti più di semplici errori
dei cittadini elettori, dovuti ad astensione, distrazione, cattiva
informazione, propaganda, creduloneria. Si tratta di prendere atto
definitivamente dell’efficacia dello
stile populista e, soprattutto, della più totale incapacità di reagire a questo stile da parte dei difensori della
democrazia.[2] Del resto non si tratta di fatti rari o del tutto nuovi: è noto
che alcune delle peggiori dittature del XX secolo hanno visto l’elezione degli
stessi dittatori da parte del popolo e/o dei suoi rappresentanti. Non è il caso
tuttavia di usare il solito appellativo di fascismo o totalitarismo nei
confronti di questi nuovi populismi. Si finirebbe per non capire un bel niente.
Proviamo allora a circoscrivere il problema: occupiamoci degli ultimi decenni e
occupiamoci delle tendenze
antidemocratiche che in vario modo hanno preso piede in molte delle
democrazie, anche quelle di più antica e nobile origine. Con l’ipotesi che l’odierno
Trump sia solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Altri ne verranno.
7. Siamo in presenza, dunque, di trasformazioni regressive della democrazia che avvengono attraverso
competizioni elettorali che possono
anche essere formalmente regolari, sebbene siano sempre possibili anche brogli,
forzature e simili. Perché si arrivi agli esiti delle maggioranze populiste che
ci interessano, occorre una qualche forma di polarizzazione, con il conseguimento di una maggioranza che si
contrappone a tutti, in nome del popolo.
La retorica populista, con al centro il leader,
tenderà ad avallare l’idea che la maggioranza costituita rappresenti l’intero popolo e che la volontà dell’intero popolo sia
impersonata nel leader e nella sua
cerchia. Non importa più di tanto se il movimento populista è orientato a
destra o a sinistra. Il M5S in Italia ha ben rappresentato un populismo di
sinistra, ma lo stile anti istituzionale era lo stesso. Le democrazie sono per
loro natura pluralistiche. Ogni forma di polarizzazione dunque tende già di per
sé a indebolire il pluralismo. Quando poi uno dei poli pretende di costituire
la totalità siamo palesemente su una strada regressiva.
8. Che cosa rappresentano
effettivamente queste maggioranze
populiste incarnate nel leader?
La risposta tradizionale è che rappresentino degli interessi di tipo economico sociale. In genere si fa riferimento
alle classi sociali coinvolte, che di
volta in volta si ritiene di poter individuare e descrivere: operai, contadini,
ceto medio, alta finanza, borghesia, militari, disoccupati, precari e così via.
A volte si usano appellativi più fantasiosi: gli esclusi, gli emarginati, i
danneggiati dalla globalizzazione, i dimenticati, i ceti medi sull’orlo della
proletarizzazione, le fasce deboli, “Quelli che non ce la fanno ad arrivare
alla fine del mese”. E così via.
Queste analisi potevano
andare bene nel primo Novecento. Poi le cose si sono complicate. Il sociologo americano
Ronald Inglehart[3] ha posto una linea di distinzione tra le società in cui la
maggior parte della popolazione si confronta ancora con problemi di ordine materiale e le società in cui la maggior parte
della popolazione gode invece di un relativo benessere e dunque può cominciare
ad affrontare problemi di ordine
immateriale. A cercare di soddisfare quelli che lui chiamava i bisogni post-materialisti. Così è
accaduto che, con la crescita delle società occidentali, i portatori immediati
di interessi “materiali” siano diventati via via meno numerosi, più
evanescenti, lasciando il posto a una nuova configurazione sociale basata su
distinzioni di tipo culturale. Accanto alle tradizionali differenze economiche
e sociali, cosiddette di classe, hanno cominciato a comparire e a esser poste
in primo piano altre differenze: differenze generazionali, di tipo religioso,
di tipo linguistico, di tipo etnico, oppure anche differenze di genere. Si
tratta di differenze che potremmo considerare non più di classe, bensì come identitarie. Ebbene sì, il benessere
relativo diffuso in Occidente ha permesso a strati sempre più ampi il lusso di
occuparsi di questioni identitarie.
9. Ma non basta. Andando ancora oltre, le identità si sono
ulteriormente moltiplicate e suddivise secondo rivoli sempre più particolari.
Spesso secondo linee di frattura di
carattere etico.[4] Abbiamo avuto l’irruzione dei valori: i difensori della vita, i pacifisti, i difensori delle
frontiere, i sovranisti, i beneficiari del reddito di cittadinanza o dei bonus,
i negatori della crisi climatica e così via. Schierati, ovviamente, contro il
nemico opposto: gli abortisti, i bellicisti, gli immigrati, i mantenuti a far
nulla o gli sfruttatori delle regalie, gli ecologisti fondamentalisti. Ma poi
abbiamo avuto anche – sociologicamente – delle linee di frattura che non
rappresentano neppure interessi, identità o valori consapevoli, ma che
semplicemente si limitano a registrare differenze
in termini di distanza, separazione, repulsione, odio, rancore, stigma. Spesso
si coagulano come atteggiamenti
taciti che sono sempre in cerca di occasioni per esplicitarsi e scatenarsi. Ad
esempio l’omofobia, il rancore verso le élite, l’antipolitica, ossia il rancore
verso i politici (“Roma ladrona”), il rancore verso le istituzioni (il “pizzo
di Stato”), la xenofobia, e così via. In questo quadro di istigazione e moltiplicazione delle divisioni, possono anche
comparire stigmatizzazioni del tutto inventate, come quella trumpiana recente
degli “immigrati clandestini che uccidono e mangiano i cani e i gatti dei
nativi”. A questi elementi si possono aggiungere anche ulteriori forme di
identificazione in termini meramente simbolici,
come le curve dello stadio, il machismo, le ideologie estremistiche magari
dotate di riferimenti storici nazifascisti. Oppure i movimenti fake nati in rete, come nel caso di
QAnon.
10. Tutti questi elementi divisivi, e svariati altri la cui
lista è senza fine, costituiscono la materia
basilare grazie alla quale viene oggi orchestrata la propaganda populista,
con la quale si cerca di unificare,
dietro al leader e ai suoi slogan,
una maggioranza di seguaci convinti, con la quale si cerca cioè di dare vita a
un “popolo”.[5] Il tutto in un intreccio inestricabile che mette insieme
rivendicazioni economiche, invidia sociale, supposti diritti violati,
rivendicazioni identitarie, paure, rancori, pulsioni violente, rituali
simbolici contro gli avversari. Le motivazioni
al voto, di cui sono portatori i populisti e che coesistono nel loro “popolo”, possono così intrecciare cose
diversissime, come la concorrenza sul mercato del lavoro, l’astio verso gli
omosessuali, il costo della vita, la paura di essere aggrediti per strada, l’invidia
sociale verso particolari tipi di privilegiati, emarginazione e frustrazioni
personali, l’adesione credula a fake news,
a narrazioni complottiste, e così via. Vale qui il principio di Thomas: nella
vita sociale, ciò che è creduto è reale
nelle sue conseguenze. Dal loro punto di vista, si può dire che abbiano
tutti ragione. Il populismo, nelle sue narrazioni
pigliatutto, cerca di agitare tutte le motivazioni possibili, almeno quelle
compatibili tra di loro. E talvolta riesce anche a mettere insieme motivazioni
incompatibili (che cioè si rivelano incompatibili solo alla prova dei fatti).
Ci si dovrebbe ricordare di quelle tecniche di propaganda sui social media, che adattano il messaggio
al profilo di chi lo riceve. Il
profilo di ciascun destinatario viene costituito sulla base dei big data raccolti in rete. Steve Bannon
era specializzato in lavori simili. Un caso macroscopico dell’uso di queste
tecniche, che ha avuto pieno successo, è stato quello della propaganda per la
Brexit, inscenata da Farage e dai suoi in Gran Bretagna.
In altri termini,
dobbiamo convincerci che non c’è più la marxiana classe universale, quella che subendo l’ingiustizia più totale
diventava rappresentativa dell’umanità nel suo complesso. Che poi era ciò che
giustificava la lotta degli sfruttati e organizzava la loro azione nella
storia. E veniva così legittimata a prendere il potere, magari anche con la
forza. Ci sono solo più degli aggregati
eterogenei di motivazioni tenute insieme dal collante generico e
superficiale, per lo più emotivo, degli slogan prodotti dal leader e dalla sua propaganda. Strano a
dirsi, ma la cosa funziona.
11. Tuttavia, per fortuna, non tutti finiscono nel mucchio.
Osservando queste improbabili artificiose aggregazioni, ci possiamo domandare
se ci sono ancora delle variabili di
ordine generale, che possano dar conto di questi rassemblement, di queste molteplici e infinite motivazioni, magari
anche contradditorie, che si ritrovano insieme, un po’ come attratte da una calamita.
La calamita ovviamente, più che un programma politico dettagliato, è il leader. La vecchia sinistra nostrana su
questo punto ha una risposta preconfezionata: dietro a tutto ciò, ci sono le condizioni economiche. Il vecchio
economicismo è sempre di moda e opera come una spessa fetta di salame sugli
occhi che impedisce di vedere le cose come stanno. È il caso dunque di ribadire
ancora una volta che le condizioni economiche e sociali, per quanto ancora importanti, non sembrano essere più una variabile
fondamentale nella costituzione dei nuovi blocchi
elettorali populisti. Non ci sono più movimenti e partiti di classe (anche perché le classi sono sparite). Abbiamo
cominciato ad accorgercene quando gli operai italiani hanno preso a votare per
la Lega Nord, hanno cioè deposto l’universalismo
tradizionale della sinistra e hanno aderito a una nuova formazione particolaristica su base etnica. Una vera e propria
mutazione. È ormai luogo comune come il cosiddetto “popolo” del Novecento si sia
allontanato dai partiti di sinistra per approdare spesso ai partiti di destra o
all’astensionismo.[6] Mentre i partiti di sinistra vedrebbero ormai soltanto
più l’adesione del ceto medio alto,
la cosiddetta “area ZTL”.[7] Di questa tendenza sono state trovate notevoli
conferme empiriche.
12. Spesso s’incolpano i partiti della sinistra storica di
avere abbandonato il loro “popolo”, avendo compiuto così un colossale errore nell’offerta politica. Un errore
dovuto evidentemente a dirigenti che hanno preso a coltivare ideologie
sbagliate. I loro programmi si sarebbero così “imborghesiti”. Può darsi anche
ci sia qualcosa di vero, soprattutto per quel che concerne i dirigenti, ma è un
dato di fatto che quel popolo, cui la sinistra tradizionale si rivolgeva con
notevole successo, oggi non c’è più.
O, meglio, è diventato un’altra cosa.
Quel popolo ha subito nei decenni una colossale mutazione antropologica,[8] tale che le proposte della sinistra
tradizionale sono diventate per loro estranee e irricevibili. Qualcuno storcerà
il naso, ma è sufficiente guardare come stanno le cose, al di là delle più
pervicaci illusioni. Tra i seguaci di Trump, già ricco di suo, abbiamo Elon
Musk, l’uomo più ricco del mondo. Accanto a costoro, stretti nello stesso “popolo”,
abbiamo però numerosi bianchi del ceto medio, numerosi black e latinos, e i
poveracci crédule di QAnon, nonché la
feccia degli assaltatori del Campidoglio. È il caso di ricordare che da noi, il
ricchissimo Berlusconi, notoriamente, raccoglieva il voto presso i ceti
popolari e le casalinghe (nonostante trattasse le donne con una certa
disinvoltura).
13. Allora, chi sono prevalentemente quelli che finiscono nel
mucchio populista? Osservando la dinamica delle aggregazioni elettorali populiste, la variabile più rilevante in
assoluto sembra essere costituita dalla dicotomia tra le grandi città e le
località periferiche. Una volta si diceva città
e campagna. Oppure centro e periferia.
Talvolta – come per ragioni storiche in Italia – questa dicotomia prende anche
la connotazione di nord e sud. Basta osservare una mappa del voto
territoriale di qualsiasi Paese occidentale per rendersi conto del peso enorme
di questa variabile.
Certo, ogni Paese ha le
sue specifiche mappe. Ad esempio, la distribuzione elettorale di destra e
sinistra in Francia vede l’opposizione tra città e campagna: la sinistra sta
nelle grandi città, e nell’area di Parigi in particolare. Gli estremisti di
destra si concentrano nelle aree periferiche e nelle campagne. Si pensi ai gilet gialli. Spesso si qualificano come
“i dimenticati”. Oppure, si vada a vedere la distribuzione territoriale del
voto per la Brexit in Gran Bretagna: la dimensione città/ campagna è stata
clamorosa. Nel caso americano poi – si vedano le mappe elettorali – abbiamo la
contrapposizione tra le due coste con la concentrazione delle grandi città (New
York e Los Angeles/ San Francisco) che son sempre state la tradizionale area
dei Democratici, insieme agli Stati attorno ai Grandi Laghi, ora persi. D’altro
canto, gli stati centro meridionali, la Bible
belt e la Rust belt che sono ora
terreno dei Repubblicani. Per capire l’enorme divide tra questi mondi, si pensi che una quota spropositata di
americani nella Bible belt non crede
alla teoria darwiniana e preferisce sostenere il creazionismo. Pare che nella
prossima amministrazione, a occuparsi della salute degli americani sarà un
fondamentalista No-vax. I seguaci di Trump, contro ogni evidenza, tendono a
negare il cambiamento climatico. Insomma, due Mondi sempre più estranei.
14. La seconda variabile decisamente rilevante nella
caratterizzazione delle aggregazioni populiste è il livello di istruzione. Da tempo è noto che il livello di istruzione
condiziona enormemente l’analisi e la elaborazione delle informazioni ricevute.
Può spingere a credere o a non credere ai messaggi, alla
propaganda, alle fake. Il livello di
istruzione determina poi il livello della definizione dei propri interessi
materiali e culturali, dal particolarismo
legato prevalentemente alla bassa istruzione, all’universalismo legato invece alla istruzione più elevata.
Abbiamo poi la variabile
delle generazioni, cioè l’età,
sebbene questa in sé non sia molto significativa e lo diventi quando legata ad
altri fattori. Ad esempio, nell’America odierna la popolazione dei giovani dei college e delle università ha
caratteristiche sue proprie ed è generalmente più progressista. In taluni casi
sono presenti forme assai radicali di universalismo. Ciò è dovuto al fatto che
i giovani che vanno al college o alle
università si devono per lo più trasferire e così sono in un certo senso
risocializzati nel nuovo ambiente che di solito è progressista e politicamente corretto.
Abbiamo poi ancora variabili
come il genere e l’etnia (specie se legata a minoranze) che
possono – seppure non sempre – avere un peso rilevante. Nel caso americano s’è
visto come gli immigrati si siano schierati nettamente a favore di Trump contro l’immigrazione clandestina,
considerata fonte di concorrenza economica e di disordine. All’interno delle
diverse etnie, i rapporti tra i generi sembra abbiano avuto un certo peso
elettorale: maschi neri non avrebbero simpatizzato per una possibile Presidente
donna nera. Più in generale, l’America è ricca di movimenti, magari anche
progressisti, che tuttavia pare abbiano finito per promuovere fratture e
divisioni. Addirittura reazioni anti –
establishment. Si pensi a stay woke
e a BLM (Black Lives Matters)). In
molti Stati americani ci sono programmi progressisti che hanno lo scopo di
favorire le minoranze (nell’ingresso alle università, nei concorsi, nelle
assunzioni nel pubblico e nel privato). Tuttavia ciò ha prodotto l’accantonamento
del criterio del merito, scatenando così rancori e rimostranze da parte degli
esclusi. Tutto ciò s’è visto alla perfezione nei risultati elettorali
americani.
15. Tuttavia, per completare il quadro della polarizzazione antropologica delle
società democratiche, va riconosciuto che tutto questo calderone non sarebbe
stato possibile senza l’effetto dei media e soprattutto dei nuovi media. Nel nostro Paese abbiamo
avuto una chiara anticipazione del peso di questa variabile nella figura di
Berlusconi e del suo impero mediatico, con il suo relativo enorme conflitto di interessi che le
istituzioni democratiche non sono riuscite a fronteggiare. Sottolineo, en passant, che i conflitti di interesse
sono senz’altro tra le cause più sottovalutate del degrado delle democrazie. I
nuovi media stanno dando un enorme contribuito alla polarizzazione e alla
compartimentazione delle società contemporanee. I media relazionali producono una sorta di effetto bolla per cui essi tendono a mettere in comunicazione
principalmente persone che si somigliano
quanto a caratteristiche di fondo, motivazioni, interessi, visioni del mondo,
tipo di linguaggio. In Italia ha fatto scuola la auto selezione dei militanti
operata sul blog in rete dal
movimento di Grillo. Il risultato era che i grillini si somigliavano tutti e
ripetevano tutti le stesse cose.
16. In particolare, nel caso americano, i nuovi media hanno
contribuito pesantemente a differenziare e separare la cultura delle élite rispetto alla cultura dei ceti popolari. Per essere più precisi, hanno
consentito, in particolare, alla cultura dei ceti popolari di esprimersi, di
organizzarsi e di contrapporsi con successo alla cultura delle élite, la quale aveva
avuto invece da sempre anche altri canali. La cultura delle élite è la cultura
delle due coste, delle grandi città, del reticolo delle grandi università e dei
centri di ricerca, delle grandi imprese private che operano nel campo delle
nuove tecnologie, o della AI, come Google, Facebook, Microsoft, che spesso si
rappresentano come progressiste, sottoscrivono e promuovono le discriminazioni
positive a favore delle minoranze e la cultura woke e il politically correct.
17. La cultura dei ceti popolari è invece sempre stata assai
più frammentata, distribuita sull’immenso territorio e spesso compartimentata
in termini localistici, etnici e di genere. Tuttavia anche tra i ceti popolari
le nuove tecnologie hanno contribuito a costruire e a mettere in contatto le
bolle comunicative locali. Senza le nuove tecnologie, un fenomeno come QAnon
sarebbe stato impossibile. Lo stesso vale anche – si badi bene – per le bolle
dei progressisti: senza i nuovi media non avremmo il politically correct, la cancel
culture, stay woke, me too e quant’altro. Solo che le bolle
dei progressisti numericamente finiscono per contare assai meno. Notoriamente
le élites costiere sono percepite in
modo assai negativo dai ceti popolari, tra i quali fiorisce un forte sentimento
anti-establishment. A loro volta le élites mostrano spesso un senso di
superiorità e paternalismo nei
confronti di questi ultimi. Sono mondi che non si parlano e che, così facendo,
favoriscono la polarizzazione populista.
È chiaro che i populisti possono realisticamente aspirare ad avere il numero
dalla loro parte, poiché le culture delle élite sono per definizione
numericamente ristrette.
Prima dei nuovi media si
poteva pensare che le élite potessero fungere da avanguardie, guadagnare un’egemonia
sul resto del Paese. Dopo i nuovi media, l’egemonia delle élite è sempre più
contestata, poiché le culture popolari sono divenute relativamente autonome. E
si esprimono. Si esprimono spesso identificando un leader, come paradossalmente diceva Marx, che fosse transfuga dalla propria classe, che usa
linguaggi volgari, che si comporta come un carrettiere, disprezza la legge e le
istituzioni, e così via. Senz’altro, tra i transfughi di successo dalla loro
classe, possiamo annoverare Berlusconi, Trump e Musk.
18. Sulla scorta di questi elementi analitici di ordine
generale, possiamo ora provare a decrittare alcuni aspetti specifici della
cronaca che abbiamo visto all’opera in queste elezioni. Non sarò del tutto sistematico,
farò solo alcune osservazioni sparse, scelte tra le questioni che mi sono parse
più rilevanti.
La volgarità paga. In questo quadro, è stato un grande errore
ritenere – come hanno fatto i democratici – che i trascorsi giudiziari di
Trump, unitamente al suo stile volgare, antipolitico, immorale e scandaloso,
avrebbero contribuito a screditarlo presso l’opinione pubblica. È invece
accaduto esattamente il contrario. Nell’America polarizzata e spaccata, il
personaggio Trump è stato visto dal polo populista come elemento anti-establishment, come il castigamatti
nei confronti dell’élite. Del resto, anche nel caso di Berlusconi, il suo
comportamento border line, nel
pubblico e nel privato, il suo anti-istituzionalismo non gli hanno mai fatto
perdere il consenso. Le volgarità non hanno mai fatto perder consenso alla
Lega, sia nella versione di Bossi sia in quella di Salvini. Il linguaggio da
borgatara di Meloni e quello parafascista di parte della sua compagine di
governo – per quanto susciti strilli e infinite contumelie da parte della
opposizione – non intacca minimamente il consenso della destra.
I diritti civili e la difesa della democrazia non pagano. La concentrazione
delle piattaforme elettorali democratiche intorno ai civil rights non paga, non fa vincere le elezioni. I civil rights sono per lo più percepiti
come faccende delle élite. La Harris
si è impegnata in particolare sulla questione del diritto all’aborto, un diritto della persona che riguarda le donne,
cioè la metà elettorato. Un diritto che evidentemente non è stato considerato
prioritario dalle elettrici. Molte avranno pensato che la questione non le
riguardasse direttamente. Ugualmente, un’eventuale prima Presidente americana donna non ha costituito una retribuzione
simbolica e morale tale da mobilitare le stesse donne. Il fatto di essere donna e nera pare poi abbia sfavorito la
Harris presso taluni gruppi sociali, in particolare tra i maschi neri.
Anche la difesa delle
regole della democrazia – cavallo di battaglia di Harris – pare non avere
lasciato traccia. Inutile ricordare agli elettori americani la lunga sequela di
reati, processi, scorrettezza in cui era incorso il candidato Trump. Inutile
ricordare agli elettori che il candidato Trump – se eletto – avrebbe potuto concedere la grazia a se stesso, facendo
di lui un cittadino diverso da tutti gli altri, dotato di privilegi estranei a
qualsiasi altro. Come un monarca assoluto.
Ciò in aperta violazione dell’etica repubblicana. Ma il Partito repubblicano odierno
non si sofferma più su questi dettagli.
Insomma, la questione
dei civil rights, della difesa della
democrazia e delle istituzioni, è ormai divenuta distintiva della “sinistra ZTL”,
destinata a rimanere sempre più una minoranza, di chi abita le città, di chi ha
elevata istruzione e reddito elevato.
Progressisti senza
cultura politica.
Anche se in Italia la questione è poco conosciuta, i Democratici e i
progressisti americani (siamo dentro le élite dunque) hanno tagliato i ponti
con la loro tradizionale cultura politica e hanno aderito a una specie di
subcultura comunitaristica[9] dei diritti e delle pari opportunità declinata
non più in termini universalistici, come diritti e pari opportunità del
cittadino, bensì in termini particolaristici, come diritti e pari opportunità
degli innumerevoli gruppi e minoranze che si sono via via costituiti,
in base alla lingua, alle preferenze sessuali, al colore della pelle, al
genere. E si battono per il riconoscimento.In
questo ambito si sono sviluppati vari movimenti, come il politically correct, la cancel
culture, Me Too, Stay Woke, LGBTQ(ecc.), Black Lives Matters
e così via. Si tratta di movimenti che senz’altro hanno avuto all’origine radici
democratiche e progressiste, ma che hanno subíto varie degenerazioni
fondamentaliste. In un suo recentissimo saggio intitolato Il follemente corretto[10] il sociologo Luca Ricolfi ha descritto,
analizzato e stigmatizzato questi movimenti, mostrandone le conseguenze
devastanti in termini di disgregazione politica, sociale e culturale. Trump ha
avuto buon gioco a usare la propria totale “scorrettezza” contro queste forme
degeneri e modaiole di elitarismo. È appena poi il caso di sottolineare che la correctness nordamericana ha origine
nella elaborazione delle filosofie postmoderne e nella importazione del
poststrutturalismo europeo. Ma di questo tratterò eventualmente altrove.
Le improvvisazioni si pagano. Va poi osservato che
la tattica dei democratici è stata disastrosa. Purtroppo qui ha pesato la
mancanza di una struttura di partito di qualche rilievo (tipica dei partiti
americani) capace di esaminare la situazione, di definire una strategia e di
prendere le decisioni. Di fatto i democratici americani sono ridotti a una
stretta oligarchia di pochi personaggi che sono titolati a decidere a
prescindere. È mancata poi, in campo democratico, una seria analisi del
quadriennio di governo di Biden, che invece è stato fatto a polpette dalla
propaganda di Trump. È mancato il tempo e il modo, per la Harris, di
differenziare ove necessario il suo nuovo programma da quello di Biden. Su
alcune questioni, Biden si è limitato a portare avanti l’impostazione del Trump
I, soprattutto sulla questione della immigrazione. E anche in politica
internazionale.
La questione internazionale conta. Harris si è trovata ad
avere le mani legate – nella campagna elettorale – anche a causa della
situazione di indecisione nella politica
estera condotta da Biden e a causa dei diversi gruppi di pressione presenti
nell’area dei democratici. Del resto, la Presidenza di Biden era cominciata
proprio con la disfatta afghana, che tuttavia era stata accuratamente preparata
dal pacificatore Trump I e che Biden ha eseguito pedissequamente nella maniera
più becera. Biden è riuscito a farsi accusare, anche dai suoi sostenitori, di
essere un guerrafondaio in Ucraina e di essere un complice dei massacri
condotti da Netanyau a Gaza. Per paura di perdere sostenitori, il messaggio di
Harris è stato confuso e indeterminato, a differenza di Trump che ha promesso
di far finire le guerre in un battibaleno. Così i democratici in politica
estera hanno finito per scontentare tutti. È chiaro che, in generale, dopo la
loro opzione fallimentare per la globalizzazione, i Democrats non hanno più un’idea chiara e salda di politica
internazionale. Per Trump e i suoi seguaci è stato molto più semplice
sventolare la pace: farsi i fatti propri e darci dentro col MAGA (Make America Great Again). Basta che a
pagarne le spese siano gli altri.
Manco a dirlo – lo dico
qui solo en passant – tutti questi
aspetti dovrebbero essere attentamente considerati anche nel nostro Paese, da
quelle forze che intenderebbero operare per la difesa della democrazia dalle
tendenze antidemocratiche.
19. Tra le conseguenze più importanti di queste elezioni
americane, ci saranno notevoli cambiamenti nella politica estera. In seguito
alla vittoria di Trump, è il caso di domandarsi cosa potrebbe accadere nelle
relazioni tra USA e il resto del mondo. Vediamo. Per avere un’idea grezza di
come si svilupperà la politica internazionale americana, basta vedere chi sono
coloro che hanno esultato per la vittoria di Trump. Pare che Alexandr Dugin, il
filosofo russo rossobruno più estremista di Putin, abbia esultato per la
vittoria di Trump. Putin dal canto suo sta dichiarando aperture pacifiste a più
non posso, ovviamente alle sue condizioni. Praticamente siamo all’esordio del trumputinismo. In effetti, nella visione
distorta di Dugin, il populismo occidentale è sempre stato considerato come il
migliore alleato dell’euroasiatismo.
Anche i pacifinti[11] nostrani hanno esultato,
convinti che Trump, in politica internazionale, facendo l’isolazionista e
mettendo così da parte l’imperialismo americano, sarà pronto a “fare la pace”
con la Russia (molti pacifinti nostrani hanno sempre pensato che la guerra in Ucraina
fosse una guerra differita degli USA e della NATO contro la Russia). Ovviamente
il tutto avverrà a spese di Kiev (e del diritto internazionale), che sarà
disarmata e ricondotta a più miti consigli, oltre che territorialmente
amputata. Finalmente qualcuno che sarà in grado di mettere a posto Zelensky e i
suoi nazi! Nella retorica trumpiana, i Democratici fanno le guerre, mentre i
Repubblicani trumpisti le faranno finire. Si prospetta dunque lo strano caso
dei pacifisti filotirannici che
vedremo presto all’opera, anche e soprattutto nel nostro Paese.[12]
Anche Netanyau pare
abbia esultato, poiché ormai nulla si frapporrà al suo progetto massimalista e
colonialista di un Israele esteso dal Giordano al mare. Il recente
licenziamento di Gallant è un segnale abbastanza chiaro. Il progetto dei “Due
popoli, due Stati”, con cui la nostra falsa coscienza occidentale si è
baloccata per ottant’anni, è ormai divenuto impossibile. I palestinesi, col
contributo suicida determinante di Hamas, hanno perso la loro tragica partita e
faranno la fine degli indiani americani. Non che i Democrats fossero stati difensori convinti della causa palestinese,
la prova è che hanno sempre foraggiato Israele con le armi, lasciandole ogni
libertà di azione, ma almeno hanno tentato di mettere in atto un’azione
calmieratrice, seppure alquanto ipocrita e nei fatti alquanto inefficace.
20. Xi è senz’altro un altro di coloro che hanno gioito per la
vittoria di Trump, anche se i cinesi sono più composti, educati alla vecchia
scuola, e sanno ancora controllare le emozioni. I prossimi quattro anni
trumpiani – considerato anche in che stato critico è la Russia e lo stato
comatoso in cui è ridotto l’ONU – costituiscono una perfetta finestra di tempo,
una occasione insperata, per la Cina, di regolare i conti con Taiwan, con le
buone o con le cattive. Il che potrebbe comportare, a tempi relativamente
brevi, una nuova fonte di instabilità nel Pacifico. Non solo di tipo militare,
ma anche di tipo economico, visto il ruolo rilevante che i prodotti tecnologici
di Taiwan hanno per l’economia mondiale. Dopo la crisi dovuta alla fornitura
del gas russo, avremo con buone probabilità la crisi dovuta alla carenza dei chip di Taiwan.
Sicuramente poi a
livello di opinione pubblica avranno esultato i negazionisti del cambiamento
climatico e le lobby dei combustibili fossili. Assieme a tutti i No-vax. Tutti
coloro che ritengono che la transizione ecologica sia solo una futile moda di élite che si vorrebbe imporre a tutto il
mondo per oscure finalità. Trump ha detto chiaro quello che pensa sugli Accordi
di Parigi sul clima.
Gli altri esultanti, per
ora, a livello di Stati -nazione sono senz’altro di rango minore. Ma tutti
insieme costituiscono una bella banda. Sono tutti gli aspiranti facenti parte
della internazionale populista e
sovranista, quella che era stata messa in piedi proprio da Steve Bannon e che
ora risorgerà a nuova vita. Per tacere di Orban e del nostro Salvini, magari
comprendendo anche il M5S, non possiamo evitare di citare Bolsonaro, sempre
attivo, oppure personaggi come l’argentino Milei.
21. Se c’è qualcuno che invece non può proprio gioire è la UE.
I rapporti tra USA e UE sono stati sempre problematici, poiché interesse degli
USA, in generale, è sempre stato di avere una Europa debole e divisa. Non è
chiaro quel che farà Trump, data la sua imprevedibilità, anche se, da quanto
annunciato, verranno al pettine sicuramente due questioni: la questione della difesa e la questione dei dazi.
Per ciò che riguarda la
difesa, l’Europa sarà inevitabilmente tenuta a investire maggiormente nelle
spese militari e a cercare di costituire
una forza militare europea, di cui tanto finora si è parlato senza nulla
concludere. Su questa questione, che è di una ovvietà totale, la politica
europea sembra però paralizzata. È il caso di tener conto che in UE ci sono
anche quelli che vorrebbero smantellare la NATO. Si prospettano dunque quattro
anni di vuote discussioni ed eventualmente di realizzazioni puramente di
facciata. Quattro anni in cui l’Europa si
giocherà definitivamente la propria posizione internazionale. In ogni caso,
questi tentennamenti costituiranno di fatto un indebolimento della difesa europea, tanto da incoraggiare le
pressioni della Russia sui vari numerosi punti critici, quelli che tutti fanno
finta di non vedere, dai Paesi baltici a Kaliningrad, alla Moldavia e alla
Transnistria, fino alla Georgia.
Nel campo del commercio
internazionale Trump ha enunciato con chiarezza quale sarà la sua politica. Una
specie di miope ritorno al mercantilismo pre-liberista: esportare le proprie
merci ed evitare di importare le merci degli altri. Una furbata colossale. I
dazi americani nei confronti dell’Europa comunque ci saranno (nonostante l’ “amica”
Meloni), per cui l’Europa dovrà prendere delle decisioni radicali circa la sua
struttura produttiva e finanziaria e la propria posizione nel mercato mondiale.
E l’Europa non ha attualmente neppure la struttura politica adeguata che
sarebbe indispensabile per questo compito.
22. Se l’analisi che abbiamo svolto fin qui ha qualche
fondamento, la vittoria di Trump dovrebbe allarmare alquanto quel che è rimasto
del fronte democratico internazionale,
almeno in Occidente. Dovrebbe allarmare anche e soprattutto i nostri
democratici italiani. Cioè, quel gruppo eterogeneo di partiti e partitini più o
meno di sinistra, che, nel tracollo di mezzo mondo, il massimo che stanno a
fare è di concentrarsi sulla luminosa prospettiva del campo largo. Come già detto in esordio, si tratta di prendere atto
ormai che il populismo funziona.
Nelle democrazie più vecchie come in quelle più recenti. In ciò dobbiamo
rivedere tutta la nostra storia recente. Il populismo che abbiamo sperimentato
finora non è stato una parentesi. Non lo si può più considerare un incidente di
percorso (come molti avevano fatto col primo Trump. O con il nostro Berlusconi
che, erroneamente, abbiamo considerato come una storia lunga ma ormai conclusa[13]).
Le mutazioni antropologiche delle democrazie hanno reso possibile questa nuova
forma di populismo e l’hanno resa oltremodo efficace.
23. Oltretutto, i nuovi populisti sono in una botte di ferro,
poiché i loro oppositori, chiamiamoli Sinistra, Democratici, oppure
Progressisti, se vogliono restar tali, non
possono usare lo stile e il metodo populista. Sarebbe paradossale
combattere le tendenze anti democratiche usando stili e metodi antidemocratici.
A meno che non si intenda adottare la prospettiva di Popper. Il quale
sosteneva, appunto, che non si possono
usare metodi democratici con gli anti democratici (quando Popper scriveva, però
c’erano i nazisti). Credo che in linea teorica avesse perfettamente ragione.
Soprattutto nel campo della politica internazionale. Tuttavia applicare oggi il
metodo di Popper nelle democrazie populiste, per contrastare le tendenze anti
democratiche, esporrebbe a gravi forme di conflittualità interna che non ci
possiamo permettere. Sperando che la situazione non degeneri così tanto da
rendere necessaria una reazione dura di resistenza.
Se non possiamo usare
oggi il populismo contro il populismo, allora si tratta anche di considerare
che il populismo di sinistra – di cui
si è parlato fino alla noia[14] e di cui abbiamo ottimi esempi – è una palese
contraddizione in termini, anche se momentaneamente e localmente può anche
funzionare. La tentazione di combattere il populismo di destra alleandosi con
il populismo di sinistra (tentazione ben presente nel nostro Paese) non tien
conto del fatto che il metodo populista di per sé erode la democrazia. Sempre e comunque. I democratici allora sono
con le spalle al muro. E lo saranno sempre di più. E ciò è divenuto
perfettamente visibile. Stando così le cose, la destra populista vincerà
sempre.
24. Come se ne esce? Occorre considerare, allargando un poco lo
sguardo, che la mutazione antropologica di cui s’è detto ha prodotto, in
sostanza, la evanescenza del citoyen.
Gli elettori dei rassemblement populisti
sono dei citoyen dimezzati.[15] Uso
qui il termine originario francese citoyen
per sottolineare il fatto che si trattava, sia teoricamente sia praticamente,
di un tipo umano ben preciso. Quello
che ha permesso la sostituzione della dimensione verticale della politica, la sudditanza, con la dimensione
orizzontale, cioè la cittadinanza.[16]
La costruzione del citoyen della
democrazia ha richiesto un lungo percorso storico, assai faticoso e non privo
di incognite. Erroneamente si pensa che il citoyen
sia un dato di fatto, una specie di prodotto naturale. Basta esser nati in uno
Stato nazionale e si è per ciò stesso cittadini. I marxisti poi hanno sempre
pensato che il cittadino fosse un elemento sovrastrutturale superfluo,
illusorio e ingannevole. Il cittadino sarebbe finito con l’eliminazione dello
Stato nel comunismo. Invece il citoyen
è un raro prodotto storico, un prodotto che può realizzarsi solo in determinate
condizioni, attraverso una lunga fase di formazione, anche sulla base di
precisi e generosi investimenti delle istituzioni pubbliche. Condorcet è stato
uno dei primi a rendersi conto che i cittadini dovevano essere formati,
costruiti come corpi artificiali.[17] Schiere di studiosi hanno esaminato con
cura i contesti storici e culturali in cui questa formazione è stata possibile.[18]
Ma sono stati per lo più ignorati.
In realtà, accade sempre
che i citoyen rendono possibile l’esercizio
della democrazia e a, sua volta, la democrazia esercitata dovrebbe produrre e
riprodurre in forma allargata i citoyen
stessi. Ebbene, si tratta di prendere
atto del fatto che questi processi virtuosi stanno vistosamente smettendo di
funzionare, almeno in ampi settori delle società democratiche. So che dalle
nostre parti l’antiamericanismo
pregiudiziale è ancora molto diffuso. Gli antiamericanisti cronici si
stanno fregando le mani, ma costoro non si rendono conto che, furbi come sono,
stanno segando proprio il ramo su cui sono seduti.
25. I partiti democratici nelle democrazie occidentali, quale
che sia la loro tradizione, sono del tutto impreparati di fronte alla mutazione
antropologica di cui s’è detto e all’insorgere del nuovo populismo. Questo
perché il populismo erode la formazione dei loro i citoyen e li trasforma in una moltitudine
di estranei, ciascuno chiuso nella sua bolla
comunicativa, in costante ricerca di una appartenenza virtuale al mondo simbolico artificioso messo in piedi
dal leader. In un simile contesto non
è più possibile alcun dibattito pubblico razionale intorno al bene comune, come voleva Rousseau. Diventa
impossibile una opinione pubblica
come quella preconizzata da Habermas. Diventa possibile solo un’adesione
individuale al “popolo” per lo più di carattere emotivo, sulla base di una
informazione limitata e spesso distorta. L’adesione avviene per le motivazioni
più eterogenee, sulla base di interessi per lo più particolaristici, legati a
situazioni specifiche e subordinati alle miriadi di frammenti virtuali di
discorso che si producono ogni giorno. Diceva Umberto Eco che, prima della
rete, le chiacchiere da bar degli avvinazzati restavano tali e non facevano
danni. Dopo la rete, qualsiasi chiacchiera, per quanto assurda, può essere
riprodotta e ricevere milioni di Like!.
Può cioè costituire un popolo, buono a tutti gli usi.
26. Se questo è vero, per le nostre forze democratiche, invece
di continuare a concentrarsi sulla recita
del campo largo, cui non crede più nessuno, e che comunque lascerebbe
sempre vincere alla destra, si tratterebbe di prendere il toro per le corna. Si
tratta di affrontare proprio quella mutazione antropologica di cui s’è detto,
che sta dando ovunque il potere ai populisti. Le mutazioni non sono
inesorabili. Ma intanto bisogna vederle, capirle e cominciare a combatterle.
Non possiamo più permettere che i nostri citoyen
siano sistematicamente corrotti (è proprio questo che avviene) e cadano nelle
mani dei populisti come utili idioti.
Come si fa? Finché i
democratici o progressisti saranno “sinistra ZTL”, per di più divisi, rissosi e
privi di una cultura politica di qualche rilievo, non vinceranno mai e non
combineranno niente di buono. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale
nel campo democratico. Le elezioni americane e le vicende dei Democrats americani come s’è visto, hanno
parecchio da insegnare. Ma facciamo un esempio specifico, d’altro genere ma
assai pertinente. Lo psicologo sociale Jonathan Haidt ha pubblicato una sua
ricerca, davvero impressionante, che ha fatto discutere mezzo mondo.[19] È
stata ora appena pubblicata in Italia. In soldoni, Haidt dimostra che l’uso
dello smartphone e dei social da parte degli adolescenti
produce danni gravissimi al loro sviluppo emotivo e cognitivo, fino a
determinare un preoccupante aumento di disturbi psichiatrici e un aumento dell’autolesionismo
e perfino del suicidio. Questo è un piccolo esempio di quello che ho chiamato mutazione antropologica. Ebbene, Haidt
fa una serie di proposte radicali per ovviare alle problematiche denunciate. La
più significativa, perfettamente fattibile, è proibire lo smartphone ai minori di 16 anni. Un piccolo passo per
rientrare dalla mutazione. Ce la sentiamo?
27. Fuor di metafora, cosa possiamo fare per ricostituire i nostri citoyen? Si noti che è indubbio che si tratta di ricostruirli. Altrimenti saranno sempre pronti a seguire il primo Trump che passa. C’è un lavoro di lungo periodo che bisogna incominciare a fare, al di là delle contingenze della politichetta quotidiana. E questo lavoro possono farlo solo i democratici, quelli che sono rimasti. In primo luogo, i democratici devono riscoprire una cultura politica autentica della democrazia e devono fare una seria autocritica per quel che sono attualmente diventati. Secondariamente, si tratta di ricostruire la cultura civica della democrazia, quella che è stata devastata dalla mutazione antropologica e che rischiamo di perdere per sempre. In terzo luogo si tratta di ricostruire il capitale sociale, quella modalità relazionale fondamentale a livello locale che i populisti, nella loro illusione di unione totalizzante col popolo e col leader, distruggono sistematicamente. Cosa implica in pratica tutto ciò? Non ho spazio qui per affrontare la questione. Ci vorrebbe un altro saggio. Per intanto, sarebbe importante l’acquisizione di ciò che siamo andati sostenendo nella nostra analisi. Le elezioni americane ci stanno semplicemente spiegando che, senza un urgente e radicale cambiamento da parte dei democratici, non ci sarà più alcun futuro per la democrazia.
Giuseppe Rinaldi (06-18/11/2024)
OPERE
CITATE
2024 Haidt, Jonathan, The Anxious Generation, Penguin Press, New York. Tr. it.: La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, Rizzoli, Milano, 2024.
2020 Henrich, Joseph, The WEIRDest People in the World, Farrar, Straus and Giroux. Tr. it.: WEIRD. La mentalità occidentale e il futuro del mondo, Il Saggiatore, Milano, 2022.
1977 Inglehart, Ronald, The Silent Revolution, Princeton University Press, Princeton. Tr. it.: La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano, 1983.
2018 Mouffe, Chantal, For a Left Populism, Verso, London. Tr. it.: Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari, 2018.
2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.
2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.
2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.
2021 Wagenknecht, Sahra, Die Selbstgerechten. Mein Gegenprogramm - für Gemeinsinn und Zusammenhalt, Campus Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, Roma, 2022.
NOTE
[1] Questo saggio ha origine da una serie di
appunti che ho preso mentre seguivo la maratona elettorale del bravo Mentana (su La 7). A partire
dall’evento in diretta, ho poi sentito l’esigenza di formulare una qualche
spiegazione di quel che stava accadendo. Si tratta ancora di riflessioni
grezze, che avranno bisogno di ulteriori approfondimenti. Ringrazio gli amici
di Città Futura, con i quali ho avuto occasione di discutere l’esito elettorale
americano. Naturalmente, la responsabilità di quanto qui sostenuto è solo mia.
[2] A questo punto sento il ruggito
dell’imbecille di turno: «L’ho sempre detto io, che la democrazia non
funziona!».
[3] Cfr. Inglehart 1977.
[4] Ne ho parlato in un mio saggio recente
pubblicato su Città Futura. Cfr. sul mio Blog: Finestre
rotte: Toh, chi si rivede. Etica e politica! .
[5] In un mio saggio del 2017 mi sono occupato
in dettaglio del populismo. Cfr. Finestre
rotte: I soggetti del populismo.
[6] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.
[7] Cfr. Wagenknecht 2021.
[8] Naturalmente mi riferisco alla antropologia
culturale, sebbene alcuni studiosi abbiano sostenuto la presenza anche di
inquietanti mutazioni di ordine psicofisiologico.
[9] Il riferimento va qui al comunitarismo nord americano, che è una
filosofia ivi alquanto diffusa e che sostiene che i soggetti della democrazia
non sono gli individui bensì le comunità, le quali devono ottenere dallo Stato
il riconoscimento.
[10] Cfr. Ricolfi 2024.
[11] Il termine “pacifinto” è nato come termine
spregiativo in occasione degli accesi dibattiti intorno alla guerra tra Russia
e Ucraina e serviva a sottolineare il fatto che la volontà di pacificazione di
costoro era tale da prescrivere la resa
immediata dell’Ucraina (col rischio anche di una sua sparizione dalla carta
geografica) e dunque tale da determinare una pace ingiusta, accettando come un dato di fatto la forza superiore
della Russia (e i suoi dati per scontati interessi “imperiali”). Personalmente,
pur criticando questo tipo di pacifismo, mi sono sempre rifiutato di usare
questo termine, proprio per il fatto che esso veniva usato più come strumento
di offesa che come strumento di analisi. Ora possiamo invece intravvedere
effettivamente uno schieramento amplissimo di forze – a livello internazionale
e a livello nazionale, di destra e di sinistra – che sosterranno questa
posizione, ovviamente ai danni della autodeterminazione della Ucraina e ai
danni di qualsiasi sopravvivenza dell’ONU. Dunque, poiché ormai il fatto c’è, il termine è destinato a
divenire un termine descrittivo,
perfetto descrittore dei tanti creduli
promotori di una pace fasulla. Un
altro motivo che mi ha indotto all’utilizzo descrittivo del termine è il fatto
che i pacifinti della prima ora erano tutti intenti a predicare che qualsiasi
invio di armi fosse sicuramente controproducente, da non farsi anche a costo di indurre, per ciò stesso, alla resa gli
aggrediti. Ebbene, in seguito ai fatti di Gaza, non ho sentito nemmeno uno
dei pacifinti - oltre alla dovuta condanna di Hamas - battersi per sospendere
qualsiasi rifornimento di armi a Israele, visto l’uso che Israele ha fatto, sta
facendo e farà di quelle armi. Più finti di
così! Secondo costoro, mentre l’Ucraina non è legittimata a difendersi, Israele
è legittimata a usare la forza “per difendersi” come meglio le aggrada,
fregandosene del diritto internazionale e dell’ONU. Si è arrivati a sostenere
che l’ONU sia antisemita. Che a Gaza e altrove ci sia stato un uso sproporzionato della forza non lo dico
solo io. Su queste basi equivoche, si costruirà il trumputinismo nostrano. Prevedo già che qualcuno ci farà sopra un
bel movimento e magari si presenterà anche alle elezioni.
[12] I pacifisti
filotirannici sono quelli che concepiscono l’uomo in termini hobbesiani,
come naturalmente incapace di vivere pacificamente. L’unica pace possibile, per
costoro, è la sottomissione a un tiranno cui sono concessi tutti i poteri,
compreso il potere di vita e di morte. Ci si aspetta la pace dal tiranno perché
si ritiene che costui, avendo già tutto, non sia spinto a togliere la vita ai
sottomessi. Tuttavia c’è il piccolo inconveniente di trovarsi a fare un patto
con un tiranno, il quale a rispettare i
patti non è tenuto. Beninteso, l’assolutismo hobbesiano è una rispettabile
teoria politica, che poteva anche essere adeguata ai suoi tempi. La quale
tuttavia pare non abbia mai garantito la pace. Ai tempi nostri, i pacifisti
filotirannici rientrano nel prototipo dei servi
del potere. Spesso, di mestiere, fanno a vario titolo gli intellettuali.
[13] Il berlusconismo è più vivo che mai. Meloni
e Salvini ne sono i continuatori.
[14] Vedi Mouffe 2018. Ho sviluppato una critica
alla nozione di populismo di sinistra nel mio saggio Populisti, Ircocervi e
Sarchiaponi. Cfr. Finestre
rotte: Populismi, ircocervi e sarchiaponi.
[15] So bene che affermazioni del genere possono
condurre alla facile accusa di elitismo. Nelle mie parole non c’è alcun
disprezzo morale nei confronti degli elettori populisti. C’è solo la
costatazione che le loro scelte alimentano di fatto le tendenze
antidemocratiche.
[16] La distinzione è di Steven Lukes.
[17] Per questo alcuni individualisti
fondamentalisti hanno accusato la democrazia di essere totalitaria.
[18] Questi temi sono stati trattati da giganti
del pensiero come Tocqueville e Max Weber. In
ordine di tempo, si veda Henrich 2020.
[19] Cfr. Haidt 2024.
.