1. Nel 1997[1] (ormai quasi trent’anni fa) Franca D’Agostini
pubblicava un noto volume intitolato Analitici
e continentali,[2] volto a fare il punto sullo stato globale della
filosofia occidentale. Il titolo del volume evocava una costatazione: l’emersione
di una spaccatura irriducibile tra due correnti filosofiche collocate approssimativamente
sulle due sponde dell’Atlantico. Nella presentazione, l’Autrice preannunciava di
voler spaziare nella sua ricerca più o meno a partire dal 1960, risalendo così
a una quarantina di anni prima. Nel 1997 dunque, dopo la sbronza marxista e
quella postmodernista, grazie alla D’Agostini la cultura italiana era invitata
a prendere pubblicamente atto di un divide
nella cultura filosofica, una spaccatura che altrove era già ben nota da un
pezzo. Dal 1960 ad oggi son passati la bellezza di 65 anni. Un bilancio non
guasterebbe.
2. Naturalmente chi si fosse allora appena interessato di filosofia
conosceva benissimo l’esistenza degli analitici.
La scuola analitica per giunta era nata proprio sul continente. Spesso tra i
padri fondatori si indicano personaggi come Friedrich Ludwig Gottlob Frege
(1848-1925), Bertrand Russell (1872-1970), George Edward Moore (1873-1958),
Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Paul Rudolf Carnap (1891-1970). Alcuni
analitici furono conosciuti anche come Circolo di Vienna o neopositivisti.
Talvolta anche sono qualificati come neoempiristi (termine quest’ultimo più preciso
di neopositivisti ma di minore fortuna). Anche in Italia si sviluppò una
corrente analitica, che tuttavia rimase minoritaria, attorno al filosofo
Ludovico Geymonat (1908-1991) e ad alcuni suoi numerosi allievi. A partire
dalle sue origini continentali, l’orientamento analitico tese a diffondersi con
successo nel mondo anglosassone, in America e in Australia. A lungo gli
analitici furono considerati come un movimento tra gli altri, in un panorama
punteggiato da orientamenti che erano considerati diversi, quando non
antitetici tra loro: idealisti tedeschi, crociani, esistenzialisti,
fenomenologi, marxisti, ermeneuti, nicciani, neokantiani, freudiani,
francofortesi, neohegeliani vitalisti, strutturalisti e così via.
3. Come si è arrivati allora al divide? La colpa, in un certo senso, è degli storici della
filosofia i quali, sul tipo della D’Agostini, ogni tanto vorrebbero fare delle
sintesi. Vorrebbero individuare correnti e movimenti e dare loro un nome. Col
passar del tempo, con l’invecchiare delle “novità” filosofiche che si erano susseguite
a ritmo incessante, e anche con l’acume di rigorose indagini storiografiche, ci
si è accorti che molte delle correnti che avevano albergato sul vecchio
continente (e che peraltro si combattevano aspramente tra loro) avevano molto più in comune di quanto non
sembrasse. O di quanto non volessero far sembrare. In sostanza, potevano
facilmente essere ricondotte a uno o pochi progenitori. Insomma, il pentolone
in cui si rimestavano le novità era sempre lo stesso. Le differenze tanto sbandierate ed esaltate apparivano sempre più dei
dettagli, mentre le somiglianze
diventavano sempre più evidenti. E così accadde che quelli che restarono
maggiormente fuori dal pentolone erano proprio gli analitici, che intanto avevano
colonizzato l’oltre Atlantico. Entrerò più avanti nel merito delle
caratteristiche comuni del pentolone. Così avvenne che numerosi screzi,
incidenti, incomprensioni che erano avvenuti da sempre tra gli esponenti delle
due correnti[3] divennero non più solo curiosi aneddoti ma indicatori di una
faglia che si stava sempre più allargando tra due antitetici modi di vedere il
mondo.
4. Il volume della D’Agostini nel nostro Paese rimase tuttavia
un unicum. Praticamente, tranne rare
eccezioni, non diede seguito a ulteriori sviluppi e approfondimenti. Se si fa a
tutt’oggi una ricerca su Google Libri si resterà sorpresi del fatto che la
coppia di termini “analitici, continentali” non ricorra in alcun titolo
rilevante nella pubblicistica filosofica nostrana. Vengono ritornate solo per
lo più citazioni occasionali in volumi o articoli di terza categoria. Insomma,
la ormai lontana provocazione della D’Agostini da noi non ha mosso i cuori e
non ha scatenato alcuna presa di coscienza. I masticatori di filosofia nel
nostro Paese si sono tenuti ben al di qua della questione. L’ipotesi cattiva è
che complessivamente ognuno abbia continuato a fare quel che faceva prima,
anche perché nel nostro Paese gli analitici sono sempre stati una minoranza del
tutto trascurabile e ovunque si volga lo sguardo ci sono solo continentali.
5. Se si fa invece una simile ricerca usando come criterio la
voce “continental philosophy” si
otterranno decine e decine di riferimenti a titoli di buona o anche ottima qualità.
Siamo così messi di fronte a un paradosso evidente. I continental ancora oggi non si riconoscono granché come tali,
mentre ormai sono così riconosciuti e studiati, proprio con tale denominazione,
dagli analitici. Mentre i continentali nostrani hanno proseguito imperterriti
come se nulla fosse, in campo analitico si è invece sviluppato, ed è
accresciuto negli ultimi decenni, un notevole interesse per la filosofia
continentale. Oltretutto ciò ha dato vita a una storiografia filosofica,
assolutamente degna di nota, che sta ribaltando alcune delle più diffuse
mitologie continentali. Certo, come conseguenza concomitante nefasta di questo
interesse c’è stata senz’altro anche l’esportazione oltre Atlantico della
nostra peggiore merce filosofica scaduta. Mi riferisco ovviamente al post strutturalismo e al postmoderno. Non posso entrare qui nel
merito di questi fenomeni.[4] Sulla paccottiglia continentale esportata oltre
Atlantico, si può vedere il saggio di Sokal e Bricmont.[5]
I continentali, invece,
a leggere e a studiare i materiali degli analitici non ci hanno provato
nemmeno. Evidentemente il tutto è dovuto a un certo provincialismo, soprattutto
da noi, e a residui di nazionalismo culturale assai diffusi nell’area
franco-tedesca. E poi continua a persistere, nel DNA del pubblico continentale nostrano,
l’aura del pensatore. I continentali
credono fermamente di avere a che fare con dei pensatori. Gli analitici non sono considerati dei pensatori, bensì soltanto dei vili meccanici. Gli analitici, grazie ai
loro esagerato commercio con la logica, avrebbero irrimediabilmente perduto l’aura del pensiero.
6. Non ho lo scopo qui di caratterizzare in dettaglio le due
parti del divide. Ci vorrebbe uno studio
approfondito. Tuttavia val la pena di fare ugualmente qualche considerazione, se
non altro impressiva, circa le principali differenze. Spesso si cerca di render
ragione del divide affermando che gli
analitici sono più vicini alle istanze di
tipo scientifico. Mentre i continentali sarebbero spesso più vicini alla letteratura. Avvicinare la filosofia
alla letteratura per i primi sarebbe un degrado, mentre per i secondi sarebbe
motivo di apprezzamento. C’è senz’altro del vero in questo ritratto. Ma non c’è
solo l’antagonismo tra scienza e letteratura, c’è una divisione assai più marcata
proprio sul rapporto da intrattenere con la scienza e con la tecnologia. Si
tratta qui di una vera discriminante. Gli analitici tendono a convivere con la scienza senza alcuna
difficoltà, mentre i continentali tendono ad opporvisi, tendono cioè a demonizzare la scienza e la tecnica.
Oppure si afferma che
gli analitici sono abituati a lavorare per
problemi, discutendoli in dettaglio, scrivendo e confrontandosi tra loro
soprattutto attraverso articoli e saggi brevi. In tal modo possono facilmente
cumulare i risultati. Mentre i continentali lavorano soprattutto sui “nomi”,
cioè lavorano su singoli autori
(definiti, appunto, pensatori) e
sulle loro opere, che spesso hanno
dimensioni voluminose e tendono a essere onnicomprensive (anche quando sono di
fatto frammentarie). In tal modo non si cumula un gran ché e si assiste, più
che altro, a una successione di autori e di mode. L’ultimo grido sopravanza sempre
i precedenti. Un po’ come tra i romanzi.
Un’altra distinzione,
spesso avanzata, è che i continentali, poco sensibili al rigore concettuale,
tendano a usare un linguaggio contorto e involuto, sino ai limiti della
comprensibilità, mentre gli analitici tenderebbero a un linguaggio chiaro e
privo di ambiguità, fino alla riduzione elementare. In effetti, tra i
continentali la illeggibilità è ammessa, quando non addirittura ricercata. Se
si vuol fare un test di illeggibilità
dei continentali, si provi con qualcosa a caso di Deleuze, oppure, avendo poco
tempo a disposizione, ci si cimenti con un libretto che è proprio adatto al
caso, come Sproni. Gli stili di Nietzsche[6] un celebre piccolo saggio di Derrida. Sarò
grato a chi mi saprà fare un riassunto. La questione del linguaggio oscuro è
vecchia quanto la filosofia. A proposito di chiarezza del linguaggio, si può
vedere Massimo Baldini e il suo Contro il
filosofese.[7]
7. Come ulteriore criterio di distinzione, direi di tipo
caratteriale, ho già accennato alla presunzione
del pensatore che spesso caratterizza i filosofi continentali e alla
questione dell’aura, cioè di quel patrimonio immateriale del filosofo
pensatore che si presume comunemente si mescoli ai suoi scritti e magicamente
li accompagni. E si mescoli anche alla sua biografia nei minimi particolari,
fino alle liste della spesa e alle ricevute della lavandaia. Norberto Bobbio,
razionalizzando la questione, ha sottolineato la differenza tra i filosofi profeti e i filosofi sentinelle. Negli ultimi due
secoli, poiché la filosofia ha anche delle conseguenze nell’al di qua,
purtroppo certe profezie filosofiche
hanno contribuito a realizzare degli effetti disastrosi. E le sentinelle, dal
canto loro, non sempre hanno fatto bene il loro mestiere. Qui si potrebbe
aprire un interessante dibattito sulla “utilità e il danno per la vita” delle
due specie di filosofi sopra citati, ma la cosa esula dai nostri scopi
immediati.
Basterebbero queste
caratteristiche distintive, ancora assai impressive, per qualificare una
situazione di contrapposizione, con orientamenti piuttosto diversi e
difficilmente componibili. Evidentemente nella comunità filosofica un divide c’è e si tratta di prenderne
atto. È stato osservato che la dicotomia analitici-continentali non reggerebbe
perché uno dei due termini designa una corrente filosofica abbastanza precisa,
mentre l’altro termine indica una designazione territoriale. Possiamo anche
chiamarli Giacomo, Antonio o Maria Giovanna, ma la sostanza della classificazione resta. Gli
scarsamente collocabili in questo panorama sono pochissimi. O forse non ce n’è
neanche uno.
8. Ho affermato prima che i continentali, ben al di là delle
loro risse e delle loro frammentazioni, provengono pressoché tutti dallo stesso
calderone. E ora mi corre l’onere della prova. Il calderone di comune
provenienza, a mio modesto avviso, è costituito dalla filosofia trascendentale kantiana o, se si preferisce, dall’idealismo trascendentale. Chi scrive sa
benissimo che taluni aspetti di Kant possono anche essere tranquillamente posti
alla base della corrente analitica. Oltretutto, negli ultimi trent’anni abbiamo
assistito a un acceso dibattito intorno alla filosofia kantiana da parte di
molti studiosi analitici nordamericani.[8] Tuttavia Kant ha fondamentalmente
influito sui filosofi continentali. Il marchio di fabbrica è il suo. L’argomento
è complesso e qui posso solo accennare. Se mai interesserà a qualcuno, potrei
produrre un’analisi più articolata.
9. Kant, fondamentalmente, rompendo con le metafisiche del
Seicento e del Settecento, ha messo l’a
priori[9] dentro il soggetto e ha convinto un vasto pubblico che quella
fosse una mossa geniale, un nuovo inizio
della filosofia. Ancor peggio, ha creduto egli stesso di avere così realizzato per
la prima volta una metafisica come
scienza. Con questa sua astuta mossa, però, l’esperienza fenomenica è
diventata mind-dependent, cioè dipendente
dagli a priori del soggetto. Accade
così che gli a priori del soggetto costituiscano l’esperienza, per cui,
puntualmente, ritroviamo nell’esperienza esattamente quello che ci abbiamo
appena messo come soggetti. Si tratta di un processo
circolare per cui la realtà diventa per lo più soltanto una riflessione del
soggetto o una sua rappresentazione.
Propongo di chiamare questo tratto fondamentale del kantismo continentale il circolo vizioso dell’a priori.[10] In
seguito a questo fallace escamotage,
si sono avute nella filosofia successiva due principali disdicevoli e
inopportune conseguenze, peraltro strettamente interconnesse tra loro.
In primis, si è aperto dopo Kant un dibattito, ormai
plurisecolare, su quali fossero
realmente gli a priori del soggetto.
Poiché gli a priori kantiani erano
evidentemente arbitrari,[11] ogni pensatore
successivo si è così inventato i suoi e li ha contrapposti a quelli inventati
dagli altri. Dando così peraltro l’impressione di una creatività filosofica da
fare invidia. Tanto per capirci, ecco un elenco, puramente esemplificativo, di
tentativi più o meno plausibili di porre
degli a priori cui sottomettersi: l’Io, l’Idea, lo Spirito, l’Essere, l’atto
puro, la volontà, la vita o vitalità, la libertà, la razza, la volontà di
potenza, la storia, la dialettica materialistica della storia, la struttura, la
materia economico sociale, l’evoluzione,[12] il progresso, l’alienazione, la
merce, l’ego trascendentale, il testo o la testualità, il potere, il
linguaggio, l’interpretazione o ermeneutica, l’esistenza o gli esistenziali, il
nulla, la tecnica, il desiderio, la differenza, la libido, l’inconscio, la
ragione strumentale. Come ognun vede, ci sta dentro praticamente tutta la filosofia continentale. Una
domanda davvero seria è quanto a lungo potrà continuare questo gioco, nella
ricerca di a priori sempre nuovi e
nel loro repentino “superamento” e abbandono. L’opinione di chi scrive è che il
cosiddetto pensiero postmoderno prefiguri
di fatto ormai la rottura imminente del giocattolo.
Secondariamente, dall’idealismo trascendentale kantiano è
derivata la perpetuazione di una vera e propria ossessione fondazionale, ovviamente un sottoprodotto legato alla
necessaria collocazione degli a priori
entro il soggetto. I quali a priori
così diventano universali e necessari. Di qui derivano gli
atteggiamenti opposti del dogmatismo (l’imposizione
dell’a priori del momento al Mondo) e
del nichilismo (la perdita luttuosa dell’a priori, il suo allontanamento dal
soggetto e/o dal Mondo). Si tratta di
due atteggiamenti perfettamente speculari che accompagnano da sempre il
valoroso pensiero continentale. Evito
di entrare nel dettaglio per spirito di carità.
10. Si può anche non condividere l’analisi qui succintamente
presentata. Bisognerebbe però averne un’altra migliore. Comunque sul fatto che
il continentalismo filosofico sia
fatto decorrere a partire da Kant vi è un accordo ormai ampio tra gli studiosi.
Almeno di quelli che hanno avuto la bontà di occuparsi della faccenda. La filosofia
continentale è comunemente fatta decorrere dalla filosofia trascendentale
kantiana e post-kantiana. L’ambito è quello della filosofia tedesca a partire
dal Settecento. Questa cronologia è comunemente adottata nelle opere di
documentazione e riferimento che sono state man mano realizzate, soprattutto
nel mondo analitico. La grande opera The
History of Continental Philosophy[13] in ben 8 volumi, uscita nel 2010,
comincia appunto con la tradizione kantiana. Lo stesso criterio, seppure l’opera
sia strutturata per problemi, è stato adottato dall’Oxford Handbook della filosofia continentale,[14] uscito nel 2007.
La guida alla filosofia continentale di Continuum[15]
comincia proprio con Kant. La guida di Blackwell[16] comincia con Hegel, ma la
sostanza non è molto diversa. È anche il caso di segnalare la The Edinburg Encyclopedia of Continental
Philosophy curata da Simon Glendinning, che segue lo stesso criterio
cronologico.[17] La stessa redazione ha curato anche un Dictionary della filosofia continentale.
Evidentemente, magari
anche per motivi diversi, uno stuolo consistente di filosofi e storici della
filosofia, ritiene che, sul continente, dalle parti di Kant, debba esser
successo qualcosa di abbastanza preciso e di abbastanza determinante, tale da
caratterizzare i due secoli successivi e passa della filosofia europea.
Qualcosa tale da influenzare profondamente la filosofia tedesca e poi quella
francese. Anche se i due Paesi sono quasi sempre stati politicamente avversari.
I tedeschi alla fine sono stati militarmente sconfitti, ma poi hanno esportato
ai vincitori la loro filosofia, con i bachi annessi e connessi. Anche la
filosofia italiana, pur nella sua miseria periferica, è vissuta di questi aurei
riflessi.
11. Si può pensare che il divide
non c’è mai stato. Oppure che c’era ed è stato ormai superato, o che ormai è in
fase di superamento. A mio modesto avviso il divide resta ben saldo e sembra purtroppo destinato a essere
superato solo con la sparizione di una delle due fazioni in lotta. Dico questo
non certo per disfattismo o vandalismo. Il fatto è che le ipotesi di fondo
intorno a cui hanno lavorato e lavorano le due correnti sembrano essere
alquanto inconciliabili. E poi, come s’è visto, le ipotesi di fondo della
filosofia continentale sono semplicemente sbagliate.
Non basterà un gentlemen’s agreement.
D’altronde il degrado progressivo
della filosofia continentale non va considerato necessariamente come una
catastrofe. Semplicemente occorre prendere atto del fatto che la loro ipotesi
di fondo è arrivata alla frutta. C’è un filosofo francese, François Laruelle, attivo
nel giro dei decostruzionisti, che ha dato vita a una corrente filosofica che
si chiama «Non-philosophie». È senz’altro uno che
ha capito tutto. Chapeau! La
filosofia di Kant, e tutto quel che ne è venuto dopo, a mio modesto avviso è un
enorme monumento culturale, sebbene oggi un poco in rovina.[18] Posto che ormai
la sua utilità diretta sta venendo meno, potrà servire come ottimo materiale da costruzione per
portare avanti il discorso filosofico fuori dal circolo vizioso dell’a priori. Esattamente come stanno facendo gli
analitici nord americani. E ciò comporterà, finalmente, anche la perdita dell’aura del pensatore.
Benjamin e Adorno non ne saranno contenti. Ma forse è meglio così.
12. Se questa è la situazione, s’impone allora l’interrogativo
circa il «Che fare?». In una simile situazione di trapasso continentale, ci sono due atteggiamenti estremi che
andrebbero evitati: il feyerabendiano «Tutto va bene» da una parte e il
fondamentalismo dall’altra. Sono tuttavia senz’altro i due atteggiamenti oggi
in gran parte prevalenti nel nostro Paese. In mezzo, su una posizione dialogico
– critica, restano ben pochi. Il fatto è che fare i fondamentalisti è molto
facile. Chi non si è sentito dire: «Ah, questo <… titolo, autore, …> non
me lo devi toccare!». Come pure è facile darsi al relativismo, per cui si
suggerisce che ciascuno, a modo suo, ha ragione, che si può imparare da tutti,
che non ci sono dunque cattivi maestri. Così il minimo è che si evita ogni
confronto, si fa al più del sincretismo di
bassa lega e ciascuno rimane della sua. Filosofia sì, ma possibilmente non disturbare.
13. L’alternativa positiva sarebbe gettare un ponte tra le due sponde
del divide facendo in modo che si
generi un interscambio produttivo. Facendo in modo che la nuova sintesi che si
otterrà sia più della somma delle parti.
Chi scrive si riconosce perfettamente in un simile progetto. Anche se chi
scrive ha la sensazione che si tratti di un progetto che non interessa proprio a
nessuno. Almeno dalle nostre parti. Il fatto è che assumere una posizione
dialogico – critica in questa situazione è un compito davvero difficile.
Anzitutto bisogna studiare. Chi è
stato formato principalmente in una tradizione di solito non ha voglia di
uscire dal guscio e investire tempo e denaro per studiare quello che hanno
detto e pensato gli «altri». È disturbante prendere atto che ci sono mondi
diversi dai nostri che funzionano con concetti e logiche diverse. È faticoso
adeguarsi a stili che sono lontani dai nostri. Fare propri vocabolari astrusi e
cervellotici. Se si comincia davvero a studiare, si può andare incontro a
esperienze intellettualmente dolorose. Le nostre concezioni più beneamate
possono sciogliersi come neve al sole, può accadere di dover smentire le
proprie convinzioni. Certo può anche accadere, ogni tanto, di scoprire nuovi
mondi.
Personalmente, in un
passato ormai relativamente lontano, ho seguito con molta attenzione e
cognizione di causa quello che mi sembra, a tutt’oggi, essere stato uno dei migliori
tentativi di fondere metodi e concetti di entrambe le tradizioni. Si tratta del
cosiddetto marxismo analitico. Ho avuto
modo di imparare molto da Jon Elster. Il lodevole tentativo dei marxisti
analitici sembra essersi tuttavia a tutt’oggi arenato, nonostante la
pubblicazione di alcuni saggi decisamente interessanti. Chi scrive purtroppo non
conosce una sola opera filosofica originale recente che sia stata prodotta
utilizzando con successo metodi e concetti di entrambe le tradizioni. Se
qualcuno vorrà segnalarmene una o qualcuna, lo ringrazierò sentitamente.
14. Non vorrei avere dato l’impressione che, secondo me, si
debba fare la lista dei buoni e dei cattivi e stare ad aspettare, sulla riva
del fiume, il tracollo della filosofia continentale. Le mie valutazioni
pessimistiche circa la filosofia continentale si basano su questioni di teoria
e su questioni di storiografia filosofica. Su tendenze oggettive che a mio
modesto avviso sono ben visibili.
In generale, tutti i filosofi andranno sempre studiati, anche e soprattutto quelli più distanti dal nostro punto di vista. La storia della filosofia – come ho già suggerito – è un immenso deposito di splendidi materiali da costruzione, grazie ai quali potremo ancora fare molta strada. Purché lo vogliamo. Ma non si potrà sospendere il giudizio e restare in un empireo di anime salve dove tutti hanno ragione. Gli errori sono errori. E, peraltro, non si può far filosofia senza errori. Identificare gli errori fa progredire la filosofia stessa. Dobbiamo ben conoscere tutta la storia della filosofia ma non è vero che si possa utilmente e ugualmente imparare da tutti.
Giuseppe Rinaldi (10/02/2025)
OPERE CITATE
2004 Allison, Henry E., Kant’s Transcendental Idealism. An Interpretation and Defense, Yale University Press, New Haven and London.
2006 Allison, Henry E., “Kant’s Transcendental Idealism”, in Bird, Graham (a cura di), A Companion to Kant, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.
1991 Baldini, Massimo, Contro il filosofese, Laterza, Bari.
1932 Carnap, Rudolf, “Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache”, in Erkenntnis, 1932, II pp.219-241. Tr. it.: “Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”, in Pasquinelli, Alberto (a cura di), Il neoempirismo, UTET, Torino, 1969.
1997 D’Agostini, Franca, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina, Milano.
1978 Derrida, Jacques, Éperons. Les styles de Nietzsche, Flammarion, Paris. Tr. it.: Sproni. Gli stili di Nietzsche, Adelphi, Milano, 1991.
2004 Ferraris, Maurizio, Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.
2008 Ferraris, Maurizio (a cura di), Storia dell’ontologia, Bompiani, Milano.
1999 Glendinning, Simon (a cura di), The Edinburg Encyclopedia of Continental Philosophy, Fitzroy Dearborn Publishers, Chicago - London.
2017 Guyer, Paul, “Transcendental Idealism. What and Why”, in Altman, Mattew C. (a cura di), The Palgrave Kant Handbook, Palgrave Macmillan, New York.
2007 Leiter, Brian & Rosen, Michael, The Oxford Handbook of Continental Philosophy, Oxford University Press.
2009 Mullarkey, John & Lord, Beth, The Continuum Companion to Continental Philosophy, Continuum International Publishing Group Ltd.
2010 Schrift, Alan D., The History of Continental Philosophy (8 voll.), University of Chicago Press, Chicago.
1997 Sokal, Alan & Bricmont, Jean, Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris. Tr. it.: Imposture intellettuali, Garzanti, Milano, 1999.
2003 Solomon, Robert C. & Sherman, David, The Blackwell Guide to Continental Philosophy, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.
NOTE
[1] Nella scrittura di questo saggio non ho
utilizzato alcuno strumento di intelligenza artificiale. Onde evitare
elucubrazioni circa eventuali rapporti tra Kant e i peanut, specifico che la nocciolina contenuta nella illustrazione
allude soltanto al carattere occasionale e divulgativo di questo scritto.
[2] Cfr. D’Agostini 1997.
[3] Celebre, ad esempio, fu la controversia che
oppose Rudolf Carnap a Martin Heidegger, nei primi anni Trenta. Cfr. Carnap
1932. Sulle origini della conflittualità tra le due correnti, riporta la
D’agostini: «Kevin Mulligan ha sostenuto che il primo documento dell’inimicizia
tra analitici e continentali può essere considerata la stroncatura all’Introduzione alle scienze dello spirito
di Dilthey scritta da un discepolo di Franz Brentano (o forse dallo stesso
Brentano) dove viene rilevata l’oscurità dell’argomentazione diltheyana, e se
ne condanna la mancanza di rigore, la pretesa di parlare della “vita” nella sua
“totalità”». Cfr. D’Agostini 1997: 60. Per la cronaca il volume di Dilthey era
uscito nel 1883.
[4] Sul postmoderno
sono già intervenuto in più occasioni. I contributi si trovano sul mio sito.
[5]
Cfr. Sokal & Bricmont 1997.
[6]
Cfr. Derrida 1978.
[7] Cfr. Baldini 1991.
[8] Cfr. La questione è stata aperta da un noto
saggio di Allison dal titolo indicativo: Kant’s
Transcendental Idealism. An Interpretation and Defense (Allison 2004).
Allison cerca di scagionare Kant dall’accusa di avere prefigurato due mondi (quello fenomenico e quello
noumenico). Per far questo deve però adottare una teoria cosiddetta aspettuale che, a parer mio, è un po’
arzigogolata: noumeno e fenomeno sarebbero solo due aspetti della stessa cosa.
Insomma, la distinzione tra i due mondi sarebbe solo epistemica e non ontologica).
Non tutti gli studiosi hanno accolto la tesi di Allison. Chi voglia rendersi
conto in breve della problematica, a parte l’ampia bibliografia disponibile
ovunque, può ricorrere a due saggi introduttivi comparsi in altrettanti companion a Kant: uno è Allison 2006,
l’altro è Guyer 2017.
[9] Gli a priori domiciliati nel soggetto da
Kant sono anzitutto lo spazio e il tempo. Abbiamo poi le 12 categorie
dell’Intelletto, di cui per comodità fornisco l’elenco qui di seguito. Le
categorie sono raggruppate in quattro gruppi di tre ciascuno. Abbiamo il gruppo
della quantità che contiene Unità, Pluralità e Totalità. Il gruppo della qualità che contiene Realtà, Negazione, Limitazione. Il gruppo della relazione
che contiene Inerenza e sussistenza (substantia et accidens), Causalità e dipendenza (causa e effetto), Comunanza (azione reciproca
fra agente e paziente). Infine, il gruppo della modalità che contiene Possibilità – impossibilità, Esistenza – inesistenza, Necessità – contingenza. Abbiamo poi
ancora l’appercezione trascendentale,
conosciuta anche come io penso. Son
questi gli a priori che poi si
troveranno fondazionalmente nella
natura (=fenomeno) a garanzia della sua universalità
e necessità (= conoscibilità). Come
ognun vede, si tratta di un perfetto circolo
vizioso. Nello stesso modo, il grande pensatore
Heidegger pone l’Essere come un a priori
e poi “scopre” che, anche se ci siamo dimenticati dell’Essere, dipendiamo
proprio dall’Essere. Per cui non resterà che aspettare l’Essere.
[10] Anche se nessuno se ne rende conto, questo
circolo vizioso è esattamente analogo al processo della alienazione religiosa denunciato da Fuerbach. Di solito Feuerbach è
fatto valere contro Hegel, ma a maggior ragione dovrebbe essere fatto valere
contro Kant. La vera fonte di Hegel in fondo era proprio Kant. La storia è sempre
la stessa. Il soggetto crea un fantasma
(= una rappresentazione) che considera come vero, al quale poi, bontà sua, si
sottomette. Nella sintesi a priori
kantiana c’è un residuo teologico
essenzialistico che ha segnato una volta per tutte il destino del pensiero
continentale. E che determinerà il suo decadimento.
[11] La Deduzione
trascendentale, intorno alla quale sono stati versati fiumi di inchiostro,
è unanimemente considerata dagli studiosi come scarsamente attendibile. Eppure
su di essa si basa tutto l’impianto della Critica
della Ragion pura.
[12] Non quella darwiniana, ovviamente.
[13] Cfr. Schrift 2010.
[14]
Cfr. Leiter & Rosen 2007.
[15]
Cfr. Mullarkey & Lord 2009.
[16] Cfr. Solomon 2003.
[17] Cfr. Glendinning 1999.
[18] Si veda, ovviamente, Ferraris 2004 e Ferraris 2008.
.